Genitivo di stima

Luigi Ceci

Sintassi latina

Genitivo di stima

I verbi di stima aestimo, duco, facio, fio e sum nel senso di “sono stimato”, habeo, pendo, puto ecc., quando la stima che si fa di una persona o di una cosa è espressa con un avverbio di quantità (molto, assai, più ecc.), vogliono il genitivo del pronome neutro corrispondente ad essi avverbi. “Tanto” si tradurrà con tanti, “quanto” con quanti, “altrettanto” con tantidem, “più” con pluris, “meno” con minoris, “moltissimo” con permagni, plurimi o maximi, “pochissimo” con minimi, “molto” con magni (non con multi), “poco” con parvi (non con pauci).

Si noti che “stimo una persona o una cosa” non si dice duco, facio ecc. aliquem o aliquid, ma magni facio, duco ecc. Cic., Att. 10, 1, 1: Magni aestimo tibi firmitudinem animi nostri et factum nostrum probari.

N.B. Nepote conosce solo aestimo e facio; pendo è ignoto a Cicerone e a Cesare; Cesare non usa mai habeo nella forma attiva; habeor nell’età classica si trova soltanto nei tre luoghi seguenti: Ces., bell. Gall. 4, 21, 7: Cuiusque auctoritas in his regionibus magni habebatur; Cic., Phil. 6, 4, 10: Nam hic inter illos Africanus est: pluris habetur quam L. Trebellius, pluris quam T. Plancus, adolescens nobilis; Cic., Verr. 4, 9, 19: Quanti is a civibus suis fieret, quanti auctoritas eius haberetur, ignorabas?

Cicerone ed altri hanno con aestimare, sebbene meno di frequente, magno, permagno, maximo, nonnihilo. Cic., de fin. 3, 3, 11: Ne ego istam gloriosam memorabilemque virtutem non magno aestimandam putem.

Aestimare senza un genitivo o un ablativo di stima o di prezzo significa “giudicare”, “valutare” e con questa accesione va unito con avverbi di modo o di maniera (vere, leviter, optime ecc.). Ces., bell. Gall. 7, 14, 10: Multo illa gravius aestimare. Cic., Verr. 4, 16, 35: Quo modo? Quo qui umquam tenuissime in donatione histrionum aestimavit.

N.B. C’è differenza, ma non sempre è osservata dagli scrittori, tra aestimare ed existimare. Aestimare si dice solo della stima o del prezzo; existimare si adopera quando si giudica della qualità di una persona o di una cosa e in questo caso all’oggetto è unito un aggettivo: existimare aliquid optimum. Ma Sallustio (Iug. 85, 41) ha: Quod carum aestumant.

Invece di puto, duco, facio nihili si ha più di frequente puto, duco, facio pro nihilo; invece di sum, fio, videor nihili si ha spesso pro nihilo esse, videri, fieri. Liv. 33, 46, 4: Quaestor id pro nihilo habuit. Cic., de fin. 2, 13, 43: Quae quod Aristoni et Pyrrhoni omnino visa sunt pro nihilo.

Homo nihili è contrapposto a homo frugi. Nihili, come nequam, è sentito come aggettivo. “Valere zero, un’acca, niente” ecc. si dice, specie nel linguaggio familiare, ducere, facere ecc. assis (un asse), flocci (fiocco di lana), pensi (penso, lavoro giornaliero delle schiave nel filar la lana), nauci (il guscio di noce), pili (capello), dupondii (due assi), semissis (mezzo asse), terunci (un quarto di asse), trioboli (mezza dracma) ecc. ecc. Cic., Att. 13, 50: Prorsus aveo scire, nec tamen flocci facio. Catul. 5, 3. Omnes unius aestimemus assis. Plaut., Poen. 1. 2. 168: Non ego homo trioboli sum.

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