Pietrobono e Dante a Porta Pia

Il dantista e l’operaio

Non so quale immagine coltiviate di Dante, non so come ve l’abbiano fatto leggere né quale Dante vi abbiano fatto leggere e neppure se abbiate chiaro che c’è un Dante che si può leggere serenamente davanti a qualsiasi pubblico e c’è anche un Dante che tanto serenamente non si può leggere. Dante è uno scrittore politicamente scorretto. Scorrettissimo. La lettura di Dante è vietata o fortemente sconsigliata in molti paesi e da molte culture. È stata vietata o fortemente sconsigliata anche da noi. La Monarchia è stata inserita nel primissimo indice dei libri proibiti del 1559. Già nel Trecento, un cardinale, Bertrando del Poggetto, legato in Italia di papa Giovanni XXII, ha fatto le umane e le divine cose per far condannare la Monarchia al rogo e, pare, per bruciare sul rogo anche i poveri resti di Dante. Dieci anni dopo la morte.

Dante ha fatto venire i nervi a molta gente. Sono sicuro che farebbe venire i nervi anche a molti di voi. Probabilmente, anzi, nel corso di questo intervento, capiterà che a qualcuno di voi verranno i nervi. Chiedo scusa ma non ci posso fare niente. Dante è uno così. È difficile leggerlo senza innervosirsi. Senza sentirsi messi in questione.

Cercherò di chiarire come sia accaduto, anche attraverso il lavoro di Pietrobono, e anzi soprattutto attraverso il lavoro di Pietrobono, che Dante sia stato reso disponibile alla venerazione di una borghesia che coltiva e pratica valori che sono completamente diversi dai suoi e anzi sono spregiati e maledetti nel gran libro che ci ha lasciato. Come sia accaduto che Dante non fa più venire i nervi a nessuno.

Mette conto di registrare intanto che, tolti gli studiosi professionisti e qualche iniziato extravagante, Dante non lo legge nessuno. Non ho trovato ancora un professore di quelli che spiegano Dante nei licei il quale abbia letto tutta la Commedia. Non c’è, in Italia, una pratica diffusa della lettura di Dante che possa essere confrontata, per un esempio, alla dedizione collettiva tributata alle pagine di Shakespeare nel mondo anglosassone.

Quanti sanno, per un esempio, che Dante è anche uno scrittore pulp, un autore horror rispetto al quale Dario Argento e Stephen King sembrano pii dilettanti? Quanti sanno che dentro l’Inferno, e non solo, Dante ci ha messo anche un mucchio di parolacce?

La fascinazione esercitata da Dante nell’immaginario nazionale, il culto di Dante, al quale siamo tutti ascritti, senza distinzione possibile tra gli iniziati che leggono la Commedia per lavoro e i profani, che non la leggono tranne i pochi canti del liceo: sono un artefatto culturale. Sono stati costruiti nell’Ottocento, che è stato il secolo di Dante.

Per i cinque secoli precedenti, Dante è stato considerato, con qualche buona ragione e con pochissime eccezioni, un poeta bizzarro, grottesco, stravagante, sulfureo, gotico, volgare, rozzo, indecente, imbarazzante. In sospetto d’eresia, o eretico senz’altro. Scomodo, irritante, marginale.

Dal quindicesimo al diciassettesimo secolo, la nostra letteratura è stata governata da un augusto, Petrarca, e da due cesari, Ariosto e Tasso.

Anche il massimo pontefice, secondo lui, degli iniziati al culto di Dante, Giovanni Boccaccio, quando fu incaricato di una lettura pubblica di tutta la Commedia, a Firenze, nella chiesa di S. Stefano a Badia, posò il libro e interruppe le lezioni al canto XVII dell’Inferno. Dice per i soliti, sopravvenuti motivi di salute. E per via della consueta passata di peste.

Che riuscirono provvidenziali e lo levarono dall’imbarazzo di leggere, in chiesa, il canto XIX dell’Inferno: che neppure i giullari a pagamento della televisione, ai quali spetterebbe, secondo Manganelli, di dire la verità al potere, hanno avuto o avranno mai l’ardire di leggere in pubblico. E figurati in chiesa. Di passaggio: perché stasera non provate a guardare? Lasciate perdere Google, Facebook, Istagram e Wikipedia. Fatevi un regalo: leggete dentro un buon libro di carta il canto XIX dell’Inferno.

C’è una Commedia che è il libro di Dante. La conosciamo, anche nel testo, meno bene di quanto vorremmo. C’è una Commedia che è stata terreno di una contesa culturale e politica. C’è una Commedia che è stata usata come strumento della lotta politica. Leggere la Commedia come un libro di poesia pura, come si leggono il Canzoniere o il Furioso o l’Innamorato, è un esercizio molto difficile. La Commedia agita questioni che ci coinvolgono e ci riguardano ancora. Che sono ancora le nostre. Dunque, ogni lettura della Commedia è attraversata dai problemi e dalle possibili soluzioni da cui veniamo sollecitati mentre ci facciamo attraversare dalla Commedia.

C’è una immagine della Commedia che è stata costruita dagli uomini del Risorgimento. Fino al 1865, fuori delle accademie; dal 1865 al 1900, soprattutto dentro le accademie. È ben rappresentata dal monumento fiorentino e dal napoletano.

La capitale fu trasferita a Firenze il 3 febbraio 1865. Subito ad aprile, fu completata e collocata sul piedistallo la statua di Dante, che era stata realizzata e donata a Firenze grazie ad una raccolta di fondi promossa tre anni prima dal comune di Ravenna: non senza intenti polemici. Il monumento fu sistemato al centro di piazza Santa Croce, dove i domenicani predicavano alle folle e i fiorentini, dal Rinascimento, giocavano a palla. Sicché, i domenicano andarono a predicare e i fiorentini ad ascoltare prediche e a giocare altrove. È un Dante combattente. Chiuso nell’abito, ha un’espressione fiera e sdegnosa. Sprezzante. È l’ispiratore di un moto rivoluzionario. Un guerriero armato che chiama alla battaglia. Tiene nella destra la Commedia come fosse una spada. È affiancato da un’aquila con le ali semichiuse, che rappresenta l’autorità civile e politica che sta per spiccare il volo verso Roma e verso la storia. È circondato da quattro leoni, che reggono con la zampa uno scudo. Su ognuno degli scudi, stemma di nobiltà araldica dell’Italia nuova, il titolo di un’opera così detta minore. L’iscrizione dice, semplicemente, A Dante Alighieri l’Italia. Che nasce nel nome di Dante. Che entra nella storia tenendo nella destra, come un’arma, la Commedia. È il Dante di Carducci:”Dante che è per noi dopo 600 anni ancor giovane, Dante in cui troviamo la nostra fede religiosa e politica, in cui abbiamo la nostra filosofia e la nostra storia”.

C’è una immagine della Commedia che è stata elaborata, al principio del Novecento, a modo di necessaria correzione della precedente ottocentesca. Fuori delle accademie e contro le accademie.

È un Dante senza monumenti. L’erezione di una statua romana è stata proposta più volte. Venne individuata una piazza, all’Esquilino, ma il monumento non è mai stato realizzato.

Il primo Dante, quello risorgimentale, è anticlericale, fiero avversario del potere temporale dei papi, censore severo dei vizi e delle brutture degli ecclesiastici, ghibellino, e sino anche “ghibellino coperto”, ascritto sin dagli anni fiorentini ad una società segreta costituita con lo scopo statutario di combattere il papato. È un guerriero ed un esule politico.

Questa immagine di Dante era arrivata in Italia dalla diaspora dei fuoriusciti politici in Inghilterra. I primi articoli inglesi di Foscolo sono del 1818. Il Saggio su Dante e Petrarca è del 1823. Il Discorso sul testo del poema di Dante è del 1825. Foscolo disegna un ritratto di Dante il cui libro sarebbe destinato a turbare, nei secoli, il sonno dei difensori e degli apologeti del papato.

Nel 1832 Gabriele Rossetti pubblica un volume che i patrioti ed i padri risorgimentali tenevano, diciamo così, sul comodino insieme alla Commedia: Sullo spirito antipapale che produsse la Riforma. Dante, precursore di Lutero, sarebbe stato l’archimandrita di una setta ereticale, di una società segreta, di una organizzazione terroristica che intendeva abbattere il potere temporale del papa. Gli adepti avrebbero comunicato tra loro attraverso il codice simbolico, il linguaggio cifrato della poesia in amore d’una bella donna.

I padri risorgimentali, molti dei quali conobbero come Dante l’esilio, e per i quali la questione della unità italiana, e del progresso civile e politico d’Italia, era essenzialmente la questione del potere temporale dei papi, si cucirono una bandiera nella quale campeggiava questo Dante “ghibellin fuggiasco”. Tanto che nel 1853, un neoguelfo, Eugéne Aroux sentì il bisogno di denunciare Dante come ”uno dei più accaniti e pericolosi avversari della Chiesa di Roma, tanto più pericoloso in quanto fornito dal Cielo di genio” e “un ateo, uno di quegli uomini senza fede e senza onore che sognano e tramano rivoluzioni, per innalzare sulle rovine insanguinate l’edificio della loro fortuna”. Il libro di Aroux si intitola Dante hérétique, révolutionnaire et socialiste. Molto dopo aver letto la Commedia, dopo aver dedicato qualche anno a leggere la Commedia: può essere divertente darci un’occhiata. Questa idea di un Dante ateo, senza fede: è tanto sorprendente, tanto bislacca ai nostri occhi che è bene non perderla di vista.

Tra il Dante ateo di Aroux e il Dante cattolicissimo che leggiamo noi c’è di mezzo un lungo lavoro di elaborazione culturale che è stato svolto, in buona parte, da Pietrobono.

Ancora nel 1821, intanto, in Italia nessuno si piglia la pena di celebrare il centenario della morte. Le celebrazioni sono sempre ufficiali. Alla presenza delle autorità civili, politiche e religiose. Dante, viceversa, era il poeta dei cospiratori. Con l’eccezione della canzone leopardiana Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, e che invece dovette attendere i liberali ed il 1865 per essere inaugurato, la quale sta in coppia con l’altra All’Italia, non accade granché. La registrazione leopardiana è puntualissima e va sottolineata: la celebrazione di Dante coincide con la grande causa della unità e del riscatto nazionale. Della lotta, se necessario armata, per l’unità ed il riscatto nazionale.

L’armi, qua l’armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl’italici petti il sangue mio.

Tra questo 1821 ed il 1865 la “moda di Dante” si diffonde sempre più. Insieme al movimento risorgimentale. La Nuova Italia, che vuole nascere, ha bisogno di un padre. Di un eroe fondatore. Lo trova in Dante, il cui culto si officia nella celebrazione della Commedia.

Il 1865 è l’anno di Dante. Il centenario della nascita viene celebrato con grande solennità. La Nuova Italia, che è nata, vuole andare a Roma. Per conquistare Roma, è necessario demolire il compatto edificio dottrinale, giuridico e politico sul quale è edificata l’autorità temporale dei pontefici. L’immagine di un Dante anticlericale ed eretico viene adoperata come leva per sconficcare le pietre d’angolo su cui è fondato lo stato della Chiesa. Per preparare le cannonate di Porta Pia, si combatte una fiera battaglia culturale contro il papato romano a colpi di citazioni dalla Commedia. Il culto di Dante schierato in campo contro il papato prepara e rende possibili le schioppettate del 20 settembre. La Nuova Italia si dispone all’impresa romana ispirandosi a un Dante seguace e continuatore dell’opera di Federico II imperatore, il tre volte scomunicato per aver cercato di restituire l’autorità dello stato. Sia detto di passaggio: tutti i padri della Nuova Italia sono stati scomunicati e alcuni di loro non hanno ricevuto l’unzione estrema.

La capitale è trasferita a Firenze, sulla strada di Roma. Si inaugura, s’è detto, il monumento fiorentino.

Escono le mille pagine della miscellanea di studi Dante e il suo secolo, che resta uno degli sforzi più poderosi compiuti dalla cultura italiana del tempo.

Escono i quindici volumi delle Poesie di mille autori intorno a Dante Alighieri.

Mille è un numero fortemente simbolico. Il millenarismo è la fede in un cambiamento, un rinnovamento epocale della storia. L’Italia vuole rinascere nel nome di Dante.

Si aprono i primi licei intitolati a Dante.

Escono le cinquanta quartine di quinari sdruccioli dell’Inno a Satana, che Carducci pubblica con il nome d’arte Enotrio Romano, a modo di omaggio ed auspicio resi ad una Roma che sta per tornare classica e pagana.

Luigi Settembrini dà principio all’impresa dell’erezione di un monumento di Dante a Napoli ed avvia la raccolta dei fondi necessari.

Si vagheggia l’istituzione di una cattedra romana di studi danteschi, alla quale sarebbe destinato Carducci, in funzione di antipapa.

Si progetta un monumento da erigere a Dante in una Roma finalmente liberata ed italiana.

Dopo la conquista di Roma, tutta l’accademia italiana si dedica allo studio di Dante. A celebrare le solenni liturgie del culto di Dante, poeta nazionale. Vengono officiati in gran pompa il centenario di Beatrice ed il centenario della Visione.

Nel 1903 va al governo Giolitti. Le questioni in campo mutano rapidamente. Inizia il lungo cammino della conciliazione tra le diverse anime della nazione. Anche per evitare l’isolamento internazionale, mentre si prepara la spedizione di Libia, bisogna disinnescare la questione romana.

Con la consueta, finissima sensibilità ai grandi orizzonti della storia, nel 1903, Benedetto Croce affida alla Critica la registrazione delle prime insofferenze, dei primi disagi per il “monoteismo dantesco”.

Da qui al 1930, Croce e Pietrobono, entrambi estranei all’accademia, si impegnano in due operazioni divergenti e parallele attraverso le quali disegnano una immagine nuova di Dante che, in gran parte, è ancora la nostra.

Il libro capitale di Croce su Dante è del 1921. L’anno delle celebrazioni del sesto centenario. A Ravenna, un poco tutti cercarono di mettere il cappello in testa a Dante. “Poeta della patria” per i liberali; cantore della futura e romana grandezza della patria e baluardo dei confini del Carnaro per nazionalisti e fascisti; poeta cristianissimo per i cattolici; socialista, cospiratore ed eretico per gli anarchici. Ventimila persone assistono alla messa in scena, per la regia di D’Annunzio, appena sgombrato da Fiume, dello spargimento intorno al sepolcro di Dante di tre sacchi di foglie d’alloro. Manca soltanto il re, che si rifiutò di partecipare, offeso dalla presenza degli anarchici, che gli avevano ammazzato il padre. Tra folle in delirio, come ministro dell’istruzione Croce presiede le solenni celebrazioni ravennati del centenario e, nella prolusione, si scaglia ancora contro la dantomania. Senza accorgersi questa volta che, al punto in cui s’è giunti, si tratta di una battaglia di retroguardia.

A segnare la conclusione delle polemiche risorgimentali e ribadire una comune volontà di conciliazione, papa Benedetto XV leva di mezzo il non expedit, favorisce la formazione di un partito popolare cattolico e il 30 aprile 1921 diffonde l’enciclica In praeclara summorum, con cui riconosce a Dante, “il cantore più eloquente del pensiero cristiano”, il gran merito di “aver onorato il cattolicesimo” e stabilisce che la Commedia “ad altro fine non mira se non a glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio, che governa il mondo nel tempo e nell’eternità”. Sicché, “in questo poema, conformemente alla rivelazione divina, risplendono la maestà di Dio Uno e Trino, la Redenzione del genere umano operata dal Verbo di Dio fatto uomo, la somma benignità e liberalità di Maria Vergine Madre, Regina del Cielo, e la superna gloria dei santi, degli angeli e degli uomini”. E dunque Dante, “il cantore e l’araldo più eloquente del pensiero cristiano” “deve alla fede cattolica tanta parte della sua fama e della sua grandezza”.

Chi volesse porsi ad intendere l’opera di Pietrobono, dovrebbe cominciare da qui. Dalla enciclica di una papa, cui Pietrobono fu molto vicino, che riesce a scorgere il poeta cristianissimo dove altri aveva visto il fiero nemico del papato.

Croce demolisce l’interpretazione risorgimentale di Dante e della Commedia attraverso la demolizione del “culto di Dante” e della “monomania dantesca”: schiera l’artiglieria d’assedio e batte in breccia la cittadella della “idolatria dantesca”. È il secondo tempo di Porta Pia: abbattuto il potere temporale della Chiesa, è necessario sgombrare il terreno. Vanno rimosse le macerie e disinnescate le mine. Croce, d’altra parte, ha bisogno di tenere ben distinto l’idolo polemico “religione di Dante” dalla “aristocrazia di uomini integri e retti” per opera dei quali, a parere suo, era stata edificata la Nuova Italia. Perciò si scaglia contro gli accademici, che addita al biasimo universale come unici, scellerati responsabili dell’impazzimento dantofilo. Sotto le randellate di Croce, tutti gli accademici italiani si dedicano, infatti, a coltivare altri territori. I migliori intelletti di quella stagione si impegnano nella monumentale edizione dell’epistolario latino di Petrarca e, dunque, migrano verso un ecosistema quanto più possibile remoto dal terreno della filologia e della critica dantesca.

Pietrobono nel 1921 assume la direzione del Giornale dantesco: imperturbato perché non ha ambizioni accademiche e per l’usbergo dell’abito che indossa, si dà tutto, nel commento alla Commedia, ad un finissimo lavoro di levigatura del paesaggio. Costruisce ponti, colma fossati, prosciuga paludi, traccia sentieri, leva di mezzo o aggira i macigni più aspri, modera asperità, apre passaggi. Il commento di Pietrobono alla Commedia è stato pubblicato tra il 1924 e il 1930 ed ha accompagnato in qualche modo le trattative diplomatiche che si sono concluse con la pattuizione del Concordato del 1929.

Pietrobono, in quegli anni, costruisce la possibilità di una lettura di Dante che non separi e non divida ma, secondo gli auspici di tutti, o quasi tutti, consenta il dialogo tra l’Italia dei laici e l’Italia dei chierici. Modellando l’argilla dell’immagine di Dante mediante delicati colpi di pollice, Pietrobono ridefinisce, chiosa dopo chiosa, annotazione dopo annotazione, il volto di un poeta sempre sommo e adesso anche cattolicissimo. Non più fiero avversario del potere temporale, non cospiratore, non fustigatore dei papi. Leva di dosso a Dante i panni dell’eretico e fa affiorare i lineamenti del poeta sacro, alla cui opera hanno posto mano e cielo e terra: dunque, sia la riva sinistra che quella destra del Tevere.

Nel XXVII del Paradiso, a S. Pietro capita di innervosirsi così tanto da trascolorare, cambiare colore. Diventa rosso come il pianeta Marte, appena gli capita di pensare al papa. E allora, accade che si produca in una fierissima invettiva. Proprio non ce la fa, a trattenersi:

Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,

il luogo mio, il luogo mio, che vaca

ne la presenza del Figliuol di Dio,

fatt’ha del cimiterio mio cloaca

del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso

che cadde di qua su, là giù si placa.

Colui – S. Pietro proprio non ci riesce a chiamare il papa con il titolo proprio – che in terra usurpa il luogo mio – ripetuto tre volte per enfasi d’ira -, il quale vaca, è vacante agli occhi di Cristo, – e dunque, sulla sedia di Pietro non c’è alcun successore legittimo -, ha trasformato il luogo della mia sepoltura in una fogna sanguinosa e puzzolente, della quale Lucifero, abisso di perversione precipitato da questo paradiso laggiù, sulla terra, si compiace e per la quale sente pacificato il proprio pur insaziato desiderio di male.

Pietrobono chiosa: “All’idea che in esso, nel seggio affidatogli da Cristo, stia a sedere un indegno, si sente riaccendere più vivo l’amore con cui lo ha difeso e santificato, e inasprire il dolore di vederlo così avvilito. La sedia papale è vacante; ma ne la presenza… Non, dunque, per i fedeli, che dovevano sempre la loro obbedienza e il loro ossequio a Bonifazio VIII; vacava bensì per il Figliuol di Dio, del quale i papi sono vicari. Il rispetto dell’autorità pontificia nel Poeta è tanto, che non se ne dimentica neppure nei momenti di più violenta passione”.

Dante fa dire a S. Pietro:”Bonifacio VIII ha trasformato la chiesa di Cristo in una fogna insanguinata e puzzolente. È un usurpatore, non un papa legittimo. È un rappresentante di Lucifero, non di Cristo”. Pietrobono annota:”Guarda quanto è grande il rispetto di Dante per l’autorità del papa, al quale i fedeli debbono sempre e in ogni caso obbedienza e ossequio”.

Nell’enciclica di Benedetto XV, quasi con le medesime parole:”Per la verità, l’Alighieri ha una straordinaria deferenza per l’autorità della Chiesa Cattolica e per il potere del Romano Pontefice, tanto che a suo parere sono valide tutte le leggi e tutte le istituzioni della Chiesa che dallo stesso sono state disposte”.

Poco più in basso, S. Pietro ripiglia la sfuriata:

Non fu la sposa di Cristo allevata

del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,

per essere ad acquisto d’oro usata;

ma, per acquisto d’esto viver lieto,

e Sisto e Pio e Calisto e Urbano

sparser lo sangue dopo molto fleto.

La chiesa di Cristo, alle origini, non è stata nutrita con il sangue del martirio mio, e di papa Lino, e di papa Cleto, per essere poi adoperata al fine di ammassare ricchezze. I primi papi santi e martiri, Sisto, Pio, Callisto e Urbano hanno sparso il loro sangue tra molto dolore per rendere testimonianza alla fede autentica e far sì che l’opera della chiesa consenta all’umanità di conquistare la beatitudine del paradiso.

Parole durissime, che Pietrobono sfuma, vela, glissa con una nota rapidissima: “San Pietro si scaglia contro la colpa tante volte rinfacciata dal Poeta ai pontefici, che una istituzione essenzialmente spirituale, come la Chiesa, hanno fatto servire a fini di grandezza mondana”.

Notevole l’avverbio, che punta in direzione concordataria: “essenzialmente”. Per Dante, invece, la chiesa è istituzione esclusivamente spirituale. Qualsiasi interferenza, qualsiasi commistione tra potere civile e potestà religiosa contraddice alla volontà espressa di Dio ed è causa, sulla terra, di disordine spirituale e mal governo civile. La chiesa che Dante avrebbe voluto è lontana dal mondo, vive nella devozione e si dedica alla preghiera ed alle lodi di Dio.

Mette conto forse di rilevare che qui ad Alatri, nella città di Pietrobono, tanto devota a S. Sisto, l’elogio tributato da Dante al patrono nella Commedia: sia passato inosservato. Ci sono canti della Commedia che si leggono e si possono leggere e canti della Commedia che non si leggono perché è meglio così.

Ancora più in basso, Dante immagina che San Pietro estenda l’ambito dell’invettiva:

In vesta di pastor lupi rapaci

si veggon di qua su per tutti i paschi:

o difesa di Dio, perché pur giaci?

Da qua sopra, dal paradiso, si vedono lupi rapaci che indossano l’abito dei religiosi e razziano tutti i pascoli che appartengono a Cristo: perché, Dio, rimani indifferente e non accorri a difesa?

Pietrobono annota: “Questo interrompersi improvviso e rivolgersi a Dio perché si levi in soccorso – difesa – della sua Chiesa e la liberi da codesti lupi, dipingono molto bene l’impetuosità del carattere di San Pietro e dicono che, se fosse in suo potere, avrebbe già da un pezzo posto mano ai flagelli, per cacciare i profanatori del tempio. Ma non poteva: e si limita a chiedere ragione di questo lungo indugio”.

Così, il problema posto da Dante si muta in un assai più inoffensivo e neutrale:”Guarda che caratterino certe volte San Pietro. Fosse per lui, li avrebbe già cacciati a bastonate”.

Nel XIX dell’Inferno, Dante immagina si eserciti la pena dei miseri seguaci di Simon Mago che, per insaziata avidità, avolterano, adulterano, prostituiscono le cose di Dio, le celebrazioni, i sacramenti e gli incarichi religiosi, in cambio di oro e di argento.

Petrobono circoscrive, limita, storicizza, allontana in un tempo remoto:”Da lui – Simon Mago – furono detti simoniaci quanti vendono o comprano le cose spirituali, come ai tempi di Dante facevano molti papi”.

Tuttavia, Dante poco più in basso specifica:

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre

non la tua conversion, ma quella dote

che da te prese il primo ricco patre.

La donazione di Costantino, e dunque il potere temporale, hanno acceso nella chiesa il fuoco della rapacità, dalla quale derivano la degenerazione del corpo spirituale e la corruzione del corpo politico e civile. E perciò, sono stati simoniaci, per avidità di beni terreni, tutti i papi che, dalla donazione di Costantino in poi, esercitarono un potere temporale e furono ricchi.

L’uso sapiente, nelle note di Pietrobono, dei tempi e dei modi verbali allontana nel tempo e rende dubitato quel che Dante vuole affermare con la forza della di profezia: “Silvestro I il quale, accettando la donazione di Costantino, avrebbe cominciata la serie dei pontefici ricchi”.

Pietrobono non rileva la contraddizione tra “la serie dei pontefici ricchi” e la specificazione limitativa “come ai tempi di Dante facevano molti papi” che ha posto più in alto e rende disputata una questione che nel testo di Dante è posta con assoluta forza assertiva: “Tutti a quei tempi tenevano per indubitato che Costantino, convertito al Cristianesimo, lasciò Roma al papa e se ne andò a Bisanzio. Se non che, mentre molti se ne allietavano, vedendo in questa donazione la garanzia della libertà della Chiesa, molti altri, fra i quali Dante, sostennero che fu invece la causa principale della sua decadenza, e cercarono di dimostrarne la illegittimità”.

Dunque, la questione in campo diventa la legittimità o l’autenticità o l’affermata o negata opportunità della donazione di Costantino, non più le pratiche simoniache della gente di chiesa ed il mercimonio delle cose di Dio.

E comunque, nella In praeclara summorum Benedetto XV scrive: “Tuttavia, per quanto si scagliasse nelle sue invettive veementi, a ragione o a torto, contro persone ecclesiastiche, però non venne mai meno in lui il rispetto dovuto alla Chiesa e la riverenza alle Somme Chiavi”.

La citazione nel testo papale: è, quanto meno, fuori contesto. In If XIX il personaggio di poeta dice a Niccolò III:

E se non fosse ch’ancor lo mi vieta

la reverenza de le somme chiavi

che tu tenesti ne la vita lieta,

io userei parole ancor più gravi.

Basta guardare quel che sta scritto subito qua sotto per avvedersi che si tratta di una figura retorica. Che altro avrebbe dovuto dire? Quale peggiore invettiva si potrebbe scagliare contro un papa?

Dante il personaggio di poesia, infatti, si lascia andare e piglia a male parole il papa dannato alla pena eterna:

Di voi pastor s’accorse il Vangelista

quando colei che siede sopra l’acque

puttaneggiar coi regi a lui fu vista.

Va giù durissimo: chi siate voi pastori è stato già rivelato all’evangelista Giovanni, quando gli fu mostrata la chiesa, quae sedet super aquas, prostituirsi ai potenti del mondo.

Pietrobono aggira l’ostacolo, ribadisce la limitazione temporale e la mette sul vago:”Veramente l’Evangelista intende parlare della Roma pagana; ma D. usando una libertà ai suoi tempi non rara, applica le terribili parole alla Roma cristiana, dopo la donazione di Costantino, al parere suo e di tanti altri, convertita nella meretrix magna dell’Apocalissi”.

E, ancora più in basso, Dante a Niccolò III:

Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento:

e che altro è da voi a l’idolatre,

se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?

Vi siete fabbricati un Dio d’oro e di argento: che differenza c’è tra voi e gli idolatri, se non il fatto che loro adorano un idolo soltanto, mentre voi ne adorate centinaia?

Pietrobono non è, né può essere, disponibile a leggere qui un attacco diretto al culto delle centinaia di sacri simulacri forgiati di metalli preziosi. Difatti, chiosa:”Vi fate un idolo d’ogni moneta d’oro e d’argento”.

Nel XXXII del Purgatorio, che vi esorto a rileggere per meditare sulla questione della allegoria nella Commedia, a Dante appare, alta sopra un carro:

Sicura, quasi rocca in alto monte,

seder sovr’esso una puttana sciolta

m’apparve con le ciglia intorno pronte.

E come per che non li fosse tolta,

vidi di costa a lei dritto un gigante;

e baciavansi insieme alcuna volta.

Quando scrive d’una chiesa corrotta, per avidità di ricchezze, dall’esercizio del potere temporale e, per questo, ridotta ad interferire ed a trescare con il potere civile e politico, a Dante viene sempre in mente la medesima allegoria: una donnaccia che fa mercato di se stessa, con il busto sciolto, mezza nuda, che ammicca a chiunque passa non per convertirlo alla fede vera ma per stuzzicarne la lussuria e la cupidigia; di fianco a costei, c’è un gigante, che rappresenta un potente della terra, il quale la sorveglia perché nessuno la porti via. E si trovano così d’accordo che, di tanto in tanto, si baciano voluttuosi.

Pietrobono chiosa a questa maniera:”L’ardimento di pareggiare la Chiesa corrotta a una meretrice, prima che del Poeta, fu di molti degli Spirituali dell’età sua e della precedente, i quali tolsero dall’Apocalisse e appropriarono alla Roma papale del tempo il simbolo che san Giovanni aveva trovato per rappresentare la Roma specialmente neroniana. […] Discutere se nella meretrice si debba vedere la Chiesa, o la Curia, o i Pontefici, mi sembra un voler introdurre nelle parole del poeta una distinzione che non c’è. Ognuno sa che Dante non inveisce contro l’istituzione divina, ma contro lo strazio che se ne faceva per cupidigia di regno”.

E infatti, nella Praeclara summorum: “Ma, si dirà, egli inveì con oltraggiosa acrimonia contro i Sommi Pontefici del suo tempo. È vero; ma contro quelli che dissentivano da lui nella politica e che egli credeva stessero dalla parte di coloro che lo avevano cacciato dalla patria. Tuttavia si deve pur compatire un uomo, tanto sbattuto dalla fortuna, se con animo esulcerato irruppe talvolta in invettive che passavano il segno, tanto più che ad esasperarlo nella sua ira non furono certo estranee le false notizie propalate, come suole accadere, da avversari politici sempre propensi ad interpretare tutto malignamente. Del resto, poiché la debolezza è propria degli uomini, e « nemmeno le anime pie possono evitare di essere insudiciate dalla polvere del mondo », chi potrebbe negare che in quel tempo vi fossero delle cose da rimproverare al clero, per cui un animo così devoto alla Chiesa, come quello di Dante, ne doveva essere assai disgustato, quando sappiamo che anche uomini insigni per santità allora le riprovarono severamente?”.

Dopo abbattuto il regno della Chiesa, in ogni caso, la questione appare risolta. Se non c’è più il regno, non c’è neppure più cupidigia di regno.

In Pg VI, dal cuore tormentato del personaggio di poeta sgorga la splendida invettiva sul servaggio e la corruzione d’Italia:

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di provincie, ma bordello.

A Pietrobono, pure così attento alle simmetrie ed alle correlazioni nella Commedia, non può venir fatto di annotare che l’Italia, per Dante, sia resa bordello dalle tresche e dalle lusinghe della puttana sciolta, della gran meretrice che puttaneggia con i re. Nella chiosa, introduce anzi una limitazione opinativa:”La parola è cruda, delle più umilianti e infamanti; ma l’Italia era, o gli pareva, una sentina di vizi e di turpitudini, e D. non si fa riguardo di pronunziarla e di metterla al posto della rima, perché ci resti scolpita nella memoria”.

Eppure, poco più in basso, Dante sente il bisogno di precisare:

Ahi, gente che dovresti esser devota,

e lasciar sedere Cesare in la sella,

se bene intendi ciò che Dio ti nota.

Ahimé, gente di chiesa, che dovresti dedicarti ad una vita di preghiera e di devozione, e non dovresti interferire con l’azione del potere civile, se intendi bene ciò che Dio ha stabilito in modo espresso per te nelle scritture.

I padri risorgimentali leggevano la Commedia al presente: l’Italia è decaduta e corrotta a causa della azione corruttrice della chiesa di Roma. La questione della rinascita d’Italia coincide con la questione romana. Il problema italiano è il problema cattolico, che va risolto in ogni modo e con qualsiasi mezzo. Pietrobono restituisce la prospettiva storica e legge al passato:”Ma l’Italia era, o gli pareva, una sentina di vizi e di turpitudini”.

Tuttavia, mentre allontana e delimita in un tempo remoto il mercimonio, la prostituzione delle cose di Dio, per questioni meno sensibili si comporta in modo esattamente contrario. Legge anche lui al presente. Nel VII dell’Inferno, il poeta immagina di ricordare di aver assistito alla zuffa degli avidi e degli scialacquatori:

Così tornavan per lo cerchio tetro

da ogni mano a l’opposito punto,

gridandosi anche loro ontoso metro.

Pietrobono annota:”È addirittura il regno della discordia. Che danno verrebbe ai prodighi se lasciassero che gli avari, arrivati al luogo di confine, in cambio di tornare indietro, seguitassero a fare il giro di tutto il cerchio? Proprio nessuno: le cose continuerebbero ad andare come vanno, tali e quali. E tuttavia, non perdonano a fatiche pur di accorrere ora a questo ora a quel punto estremo del cerchio, a impedire che gli avversari mettano piede sul loro terreno. Fossero almeno concordi fra loro! Al contrario: non hanno finito di respingere la fazione avversa, che la discordia comincia subito in famiglia. Storia di tutti i tempi”.

Difficile non vedere qui tra le righe un riferimento diretto alle dispute ed alle contese tra Pietrobono ed i confratelli scolopi: a proposito della sede del nuovo Nazareno in via Toscana, e degli affari immobiliari dell’ordine, e della presidenza del Nazareno, che gli fu tolta dal generale dell’ordine e alla quale fu restituito per volontà espressa del ministro dell’istruzione e del papa.

Pietrobono, leggendo Dante, insomma, gioca con la variazione della profondità di campo per rendere presenti e mettere bene a fuoco alcuni tratti ed alcune questioni e rendere sfumate, indistinte, lontane, collocate sullo sfondo, in un tempo trascorso e remoto, alcune altre. Per certi ambiti, mostra una poesia di Dante che si appunta agli universalia, per altri ai particularia.

Pietrobono fu protetto da due papi, Leone XIII e Benedetto XV, che risolsero d’autorità e in suo favore le dispute ed i piccoli intrighi che corsero tra lui ed i confratelli Scolopi anche se non riuscirono o non vollero evitare che fosse posto fuori dal convento. Fu amico personale della regina Margherita, che frequentava le letture alla casa di Dante e passeggiava volentieri con lui, dandogli il braccio, contornata dalle real dame, per discutere di Dante.

Interlocutore di papi e di sovrani, ha contribuito a costruire la possibilità di una sistemazione nuova delle relazioni tra potere civile e potere politico. Acquisita alla storia la fine del potere temporale, era venuto il tempo della riconciliazione. Dante poteva essere adibito ancora una volta a ridefinire il senso e l’interpretazione della storia d’Italia: nel passato della chiesa sono stati commessi molti errori, che il poeta cristianissimo ha denunciato chiedendo con forza un rinnovamento spirituale. La fine del potere temporale, del regno papale, consente la nascita di quella chiesa devota e non più tribolata dagli interessi mondani che Dante aveva auspicato.

Nella vita di Pietrobono, la giornata di Porta Pia ha un significato particolare. Ormai anziano, ricordava ancora il terrore provato, bambino, per il frastuono delle cannonate italiane del 20 settembre, che si udì bene anche ad Alatri:”La presa di Porta Pia, di cui ricordavo, bambino terrorizzato, le cannonate, il cui rombo arrivava ad Alatri”.

Entrò in convento il giorno del decennale di Porta Pia. La data fu scelta dal padre, un falegname di sentimenti rivoluzionari che, subito dopo aver lasciato il figlio a S. Pantaleo, andò a Porta Pia per partecipare ai festeggiamenti della vittoria sul dispotismo clericale

A S. Pantaleo, l’ala dei novizi dava su Via della Cuccagna. A Pietrobono fu assegnata una umilissima e disadorna stanzetta. Si affacciò alla finestra e trovò che gli era preclusa la vista sia su piazza Navona che su Campo dei Fiori. Non poteva vedere, ma riusciva a sentire:”Arrivava alle mie orecchie la baldoria del decennale della “presa di Porta Pia”.

La memoria dell’ingresso nella vita religiosa per Pietrobono era legata a quella baldoria.

Sulla questione della donazione di Costantino è tornato più volte.

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

che la diritta via era smarrita.

Mi accorsi di andare errando per una selva oscura, simbolo frequente presso gli antichi dello stato di rozzezza e di ignoranza delle prime età; ma qui propriamente figura dell’antico errore (Par. VIII, 6), in cui gli uomini sono ricaduti per aver di nuovo violato l’interdetto, ossia il comando divino di non toccare la pianta che è nel mezzo del paradiso terrestre. [… ] Si aggiunga che nella Com. si dichiara più volte che la via diritta era stata smarrita da tutti”.

Pietrobono ha insistito a lungo sul parallelo, nel pensiero di Dante, tra peccato di Adamo e donazione di Costantino. Lo scerpamento nel paradiso terrestre dell’albero del bene e del male ha segnato il primo tempo della separazione tra l’umanità e la divinità. Il sacrificio di Cristo sulla croce ha fatto le vendette del peccato antico, ha riscattato la colpa originaria. E tuttavia, la donazione di Costantino, o comunque l’esercizio di un potere politico e civile, poiché ha traviato la chiesa la quale, per cupidigia di regno, di potere e di ricchezza, è venuta meno alla propria missione divina di guida dell’umanità alla salvezza eterna, ha prodotto una condizione nuova di separazione. Tutta l’umanità ha smarrito la strada della vita virtuosa e felice. Dunque, la giornata di Porta Pia può assumere un valore provvidenziale. Non c’è più una chiesa regnante. Dunque, la chiesa può essere restituita alla purezza della vita spirituale che era stata predicata da Cristo e di cui S. Francesco rappresenta un esempio sublime.

Uno dei racconti di vita che, tardo di anni, Pietrobono ripeteva volentieri riguarda le letture alla casa di Dante:

Ogni sera, per tutto il tempo delle conferenze, avevo gli occhi puntati su di me di un povero uomo delle prime file. Aperte a tutti, le conferenze, non mi meravigliava certo di vedervi anche un povero operaio.

Seduto nelle prime file di sedie, attentissimo, seguiva le mie conferenze, prendendo degli appunti.

Il vestito lindo, ma povero, quello “delle feste ricordate”; il viso cotto dal sole dicevano alla lunga, insieme a due mani robuste e callose l’appartenenza al ceto operaio.

Una sera, dopo i convenevoli d’uso con gli intervenuti e con gli organizzatori, stavo avviandomi verso il Nazareno per i vicoli delle Botteghe Oscure e Piazza Venezia, per attraversare Piazza SS. Apostoli e quindi fontana di Trevi”.

Fatti pochi passi mi vidi affiancare da un uomo che pur nel crepuscolo riconobbi l’attento “alunno” della Casa di Dante. Con il cappello in mano mi chiese rispettosamente di potermi accompagnare al Collegio; desiderio represso per molti giorni. Fui giulivo di averlo con me per chiedere tante cose a lui. Era operaio muratore, mi raccontò, con la famiglia; non avendo potuto studiare regolarmente lo faceva nei ritagli di tempo. Erano i suoi momenti di estasi e non mi nascose la sua debolezza per la Divina Commedia.

Approvava pienamente il mio asserto di spiegar “Dante con Dante” e volle chiosarmi alcune terzine del Poema.

Rimasi interdetto e volli che nelle sere a venire fosse mio compagno di “ritorno”.

Nella mia lunga vita letteraria non ascoltai commento più chiaro e appropriato. Io, figlio di un operaio falegname, ero felice che un altro operaio autodidatta sentisse la Divina Commedia come la sentivo io dopo studi e confronti a non finire”.

Dopo il Dante risorgimentale e quello concordatario, spetta a noi il compito di intendere quale sia il Dante nostro. Del nostro tempo. Quale senso possa avere Dante per noi. I padri liberali ci hanno lasciato il culto di Dante. Pietrobono ci ha lasciato il senso del poeta sacro e cristianissimo. E però, il Dante dei nostri tempi è diventato una faccenda di professori. Salvo i pochi canti del liceo, non c’è un Dante nazionale e popolare. Che sia anche letto, oltre che venerato. Le escogitazioni interpretative dei professori hanno stratificato sul testo della Commedia una tale quantità di sovrastrutture liturgiche che Dante è diventato inaccessibile a chi non sia un lettore professionista. Il Dante per forza del liceo, il Dante dell’analisi del testo sortisce l’unico risultato di rendere Dante non più leggibile. Precluso alla lettura. Chi ha letto quei sette o otto canti della Commedia al liceo ha depositati nella mente alcuni endecasillabi. Quelli che ricordano tutti. Nel mezzo del cammin di nostra vita. Amor ch’a null’amato amar perdona. Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza: con la a. E l’altre stelle. Pensa, tutte e tre le cantiche finiscono con stelle. E basta là. Ma è come se fosse stato vaccinato alla lettura di Dante. Gli hanno messo in testa, a furia di parafrasi e di analisi, che a leggere Dante la gente non ce la può fare. Ci vuole un professore per forza.

Nessuno, che abbia letto la Commedia al liceo, compresi i professori del liceo, pratica e coltiva la lettura di Dante. Attraversa il testo della Commedia. Si lascia sollecitare, graffiare l’anima dal testo della Commedia. Il sacerdozio di Dante professato dai commentatori, dai critici, dagli interpreti professionisti e professorali ha prodotto il risultato pestifero di rendere Dante indisponibile. Inaccessibile. Irraggiungibile.

Manganelli raccontava che, dopo aver letto Dante tutto in una volta e tutto di seguito, gli era accaduto di ragionare l’esperimento con letterati, critici e studiosi di gran nome e assoluto valore: come sono tutti gli studiosi, del resto, secondo loro. Che erano sbiancati e l’avevano poi rampognato e rimproverato e riprovato unanimi:”Ma come si fa! Dante si studia, non si legge! Ci vogliono anni, per studiare Dante. Decenni di lavoro eroico ed inesausto”.

A me pare che il senso più alto della lezione di Pietrobono stia in quelle passeggiate serali con un operaio che lo ricongiungeva con le origini familiari e con il padre falegname e “rivoluzionario”. Il dantista e l’operaio. Lo studioso di Dante che mette la Commedia in mano all’operaio. Ragiona della Commedia con l’operaio. Non “spiega la Commedia” all’operaio.

Il sogno di una Italia finalmente adulta, che sappia distinguere la cultura dal pettegolezzo e non confonda l’imparaticcio con la densità culturale, è il sogno di una Commedia tolta dalle mani dei professori e restituita agli operai. Di una Commedia per la quale non si officino liturgie laiche e si celebrino messe cantate e lezioni magistrali, ma che ognuno voglia leggere e possa leggere come gli pare. Cercandoci e trovandoci dentro quello che gli pare. Non esiste una interpretazione autentica di Dante. La Commedia è, banalmente, un capolavoro e, per questo, è infinitamente polisemica. Rimane disponibile per infiniti gesti appercettivi. Per infinite esperienze di lettura. Per innumeri ricerche di significato. Nonostante gli sforzi dei professori per ridurne la polisemia ad interpretazione unica.

Dante non è un sacerdote della patria né un sacerdote dell’altare ed è vero: “non tutto è oro nella coppella di Dante”. È un poeta e basta. Abbiamo vestito Dante con i panni del poeta dell’Italia e del poeta cattolicissimo. Poi gli abbiamo buttato addosso la toga del professore e lo abbiamo messo in cattedra a predicare agli studenti. È venuto il tempo di un Dante laico. Di un Dante degli Italiani.

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Riproduco tale quale l’intervento tenuto ad Alatri. È un testo vocale. Manchevole, come non sfuggirà all’attento lettore, degli usuali apparati accademici.

L’ho esposto nel corso del convegno “Dal centro al cerchio. Un viaggio controcorrente nell’universo della Commedia” organizzato ad Alatri per il sessantesimo annniversario della morte di Pietrobono dalla associazione “Gottifredo”.

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