Due anni, fa alla biblioteca comunale di Alatri, ho presentato le conclusioni di una indagine cui avevo dedicato un poco di tempo libero. Mi pare ancora che quel lavoro abbia qualche senso e che, perciò, vada reso disponibile a chiunque si interessi di queste faccende. Ho un poco rielaborato l’originale ma le idee di base sono le medesime. Chi volesse discuterne, mi può scrivere: angelo@angeloboezi.net. Oppure, può commentare qui sotto. Avevo disattivato questa possibilità un anno fa. C’erano in giro degli stupidissimi robot informatici con nomi russi che registravano in modo automatico centinaia di utenti fittizi per ora e, in questo modo, generavano un traffico di rete spaventoso. M’hanno fatto perdere un mucchio di tempo. Meglio la posta. Adesso riprovo. Speriamo bene.
Siamo qui per parlare di una strada romana che attraversa Pelonga e sale ad Alatri. È stata, per millenni, la via principale di accesso al paese. Per venire ad Alatri, si passava da Pelonga. Per partire da Alatri, raggiungere la via Latina e andare a Roma oppure, verso Capua, a Sud, per arrivare all’Appia, fino a Brundisium e di là, per nave, fino a Dyrrachium, dove iniziava la via Egnatia, che si allungava fino in Tracia: si passava da Pelonga.
Lo studio di Pelonga è appena agli inizi. Fino a qualche anno fa, i competenti, gli esperti e i professionisti supponevano che le testimonianze di presenze umane sul terreno fossero modeste. Ne concludevano che il popolamento antico non fosse stato significativo. In realtà, nessuno aveva mai guardato quell’area con l’attenzione necessaria.
I risultati dei saggi di scavo e delle ricognizioni del prof. Biddittu, che rimangono fondamentali, non hanno lasciato gran traccia negli studi. A leggere la guida archeologica di Alatri, anzi, si vede bene che i suoi lavori non sono stati compresi o, peggio ancora, neppure letti con un poco di cura.
Tutta questa storia, che parla di Monte Lungo, di Monte Capraro, degli appassionati locali e degli archeologi autentici e certificati, l’ho raccontata in Pelonga, che si può leggere anche in questo zibaldone digitale. Oppure, meglio ancora, comprando il libro. Tutti i soldini che si ricavano dal libro vanno alla associazione Amici del cuore, che li usa per acquistare ed installare defibrillatori ed organizzare iniziative di formazione e promozione d’una maggiore sensibilità verso le malattie cardiovascolari. È stata costituita in memoria d’un caro amico mio, Guido Celani, che una brutta mattina si è alzato, ha bevuto un caffè ed è morto così, perché gli si era fermato il cuore senza un motivo che si potesse capire. Con Guido siamo cresciuti insieme. Giocando a guerra, a sassate, a nascondino, a palline, a figurini e ad acchiappare le lucertole. E anche in memoria del figlio di un altro carissimo amico mio. Giacomo Dell’Uomo era un ragazzo splendido, ed è morto pure lui, come Guido, così, senza una ragione. Ci fosse stato un defibrillatore là vicino, e qualcuno in grado di eseguire la procedura di rianimazione, forse sarebbero ancora vivi. Perciò: meglio comprare il libro. Oppure leggere qui e comprare il libro. Oppure non leggere qui, non comprare il libro, non occuparsi di Pelonga, di cocci vecchi, di tombe antiche e di strade romane e contribuire alle attività della associazione, che sono molto più serie di questo minimo esercizio di antiquaria.
Mi pare che le idee fondamentali di Pelonga siano state accettate. Quell’area, adesso, è considerata di altissimo significato archeologico e viene, finalmente, un poco protetta. Ma è stata saccheggiata senza misericordia per decenni. Comunque sia andata: siamo sicuri che tutto l’ampio anfiteatro naturale disteso tra Monte Capraro, Monte Lungo e Colle del Drago, che comprende la vallata di M. San Marino: è stato abitato in modo stabile nell’età della pietra, durante le età del bronzo e del ferro e nel periodo, diciamo così per capirci, romano. Secondo me, anzi, per quel che si vede sul terreno, il popolamento antico è stato molto più intenso che l’attuale. Penso che, quando avremo finito , sarete d’accordo con me: Pelonga è stato un posto molto importante del Lazio mediano in età antica.
Per noi, invece, Pelonga è un luogo periferico. Meglio: una specie di non-luogo intermediario collocato tra due comunità. Sospeso tra due comunità. Dove non c’è ragione di andare perché non porta da nessuna parte. In età romana, invece, ci passava una strada importante. Uno dei tre grandi assi viari che collegavano Roma con l’Italia meridionale. Sulla costa c’era l’Appia, che è, verosimilmente, la prima strada della storia umana con fondo artificiale. All’interno, distesa lungo la valle Latina, c’era la via Latina, che seguiva, approssimativamente, il tracciato della nostra Casilina e si ricongiungeva all’Appia nei pressi di Capua. Ancora più all’interno, tagliando le prime elevazioni dell’Appennino, correva la via Tiburtina, che saliva fino alla valle dell’Aniene, raggiungeva Subiaco e di là, per Tibur, che noi chiamiamo “Tivoli”, arrivava a Roma.
Se, per qualche motivo, le vie Appia e Latina fossero state interrotte, metti per allagamenti o altri malestri di tempo o perfidia di uomini, la via Tiburtina, che non si poteva allagare perché stava a mezza costa, sarebbe rimasta sempre disponibile.
Sulla Tabula Peutingeriana questa via Tiburtina è segnata soltanto fino a Subiaco. Ma, come sanno tutti, la Tabula rappresenta i percorsi ordinari del cursus publicus – diciamo così, giusto per capirci, il sistema postale romano -, non l’intero sistema della viabilità antica. Noi, però, sappiamo che questa Tiburtina c’era e che arrivava fino alla via Latina. Il compitum, il bivio tra via Latina e Tiburtina stava a Frusino, proprio a Madonna della neve, dove sono affiorate sepolture romane.
Di passaggio: le località individuate dal toponimo “Madonna della neve” corrispondono ad insediamenti antichi precedenti che erano caratterizzati dalla presenza di un nevaio. Durante l’inverno, la neve veniva trasportata dalle montagne e compressa in accumuli sotterranei. In questo modo, rimaneva disponibile per il resto dell’anno. Questa pratica è rimasta in uso sui nostri monti fino a qualche decennio fa. I pastori, d’inverno, accumulavano grandi quantità di neve nei canaloni meno esposti al sole. Durante il periodo del pascolo estivo, la facevano sciogliere un poco alla volta per le necessità proprie e degli animali. Per noi, il nevaio è un indizio importante perché doveva stare per forza vicino ad una strada che potesse essere percorsa con i carri.
Tutti sanno che le reliquie di S. Sisto sono arrivate ad Alatri per una provvidenziale deviazione di percorso. Venivano condotte, a dorso di mula, lungo la via Latina, da Roma, verso Sud, con l’idea di arrivare ad Alife, ma l’animale, passata Anagni, deviò a sinistra e arrivò ai piedi della collina di Alatri, nei pressi della chiesa di S. Matteo dove, fuori dell’abitato, c’era un lazzaretto, o “ospitale”. Adesso, se avete la pazienza di rimanere e sentire la storia che sto per raccontare, vedrete che S. Sisto è passato proprio per questa strada di cui stiamo cominciando a parlare. L’esistenza di questa strada, che andiamo cercando, è confermata dalla narrazione della venuta di S. Sisto e, a sua volta, la conferma. “L’impervia strada in salita” percorsa dalla mula per arrivare ad Alatri è proprio la Tiburtina.
Ritrovare questa strada ci aiuta a capire meglio noi stessi, il nostro territorio e la nostra storia perché la Tiburtina ha avuto, per i nostri avi, un ruolo essenziale.
Sappiamo che questa Tiburtina c’era ma non sappiamo dove passava esattamente. Ne abbiamo perso il tracciato. Non è strano. Per qualche motivo, che non ho mai capito, gli studi di archeologia hanno ignorato per secoli le strade e gli acquedotti di Roma. Finché sono rimasti in funzione, nessuno li ha considerati degni di attenzione. Li adoperavano e basta là. Le strade romane hanno continuato a costituire i vettori fondamentali della viabilità italiana fino alla seconda guerra mondiale. L’esercito tedesco, nel 1943, dopo la sbarco alleato e la liberazione della Sicilia, risalì la penisola lungo l’Appia e ne fece saltare i ponti per rallentare gli anglo-americani. Poi sono venuti gli anni Cinquanta, il “miracolo economico”, la speculazione edilizia e, nel gran fracasso di quella immensa babilonia, ci siamo mangiati, col resto, anche quel che era rimasto delle strade di Roma. Non solo delle strade di Roma, per la verità. Sono spariti, in pochi anni, centinaia di chilometri di Appia. L’ILVA di Taranto, per un esempio, l’hanno costruita esattamente sopra l’Appia. Dicono anche che i basoli dell’Appia siano stati, qua e là, scavati con la ruspa e adoperati per pavimentare cortili e rustici di ville e casali. Da Benevento in poi, è come se fosse scomparsa.
Questa brutta storia l’ha raccontata Paolo Rumiz in Appia, che è un magnifico libro di viaggio: la storia dell’Appia, che è storia della relazione tra l’Appia e noi, ci può aiutare a capire chi siamo diventati. Ci consente di intravedere la direzione verso la quale siamo incamminati. E allora, se mi permettete un consiglio: leggete il libro di Rumiz. Lasciate perdere per qualche sera la televisione e i social. Vale la pena.
C’è anche quest’altro libro, che non si studia nei corsi di latino delle scuole e neppure delle università, ma è un peccato: de aquis urbis Romae, di un Sextus Iulius Frontinus, del quale non sappiamo molto. Tacitus, in Agricola XVII, lo ricorda, con molto rispetto, governatore provinciale in Britannia, probabilmente dopo il 74 del nostro tempo: sustinuitque molem Iulius Frontinus, vir magnus. Nel 97 ricevette da Nerva l’incarico di curator aquarum: soprintendente agli acquedotti di Roma. C’è un tubo di piombo, una conduttura d’acquedotto, che in latino si chiama fistula, ritrovato a Roma, lungo la via Tiburtina, che reca l’iscrizione SEXTIULIFRONTINI.
Il libro di Frontinus è un magnifico trattato di ingegneria romana e i Romani sono stati i più grandi ingegneri della storia. L’autore è sostenuto da un altissimo e purissimo senso del dovere nel confronti del bene comune, che in latino si dice res publica. Incaricato di provvedere alla manutenzione del sistema di rifornimento idrico della città, assolve al proprio compito con scrupolo, disciplina e onore. Nel primo libro, descrive il tracciato e le caratteristiche degli acquedotti di Roma. Li colloca nello spazio riferendoli sempre ad una strada. Dove c’è un acquedotto, c’è anche una strada. Tra gli acquedotti e le strade romane intercorre una relazione assai stretta.
Appius Claudius Caecus, censore dal 312 al 308, volle la costruzione del primo acquedotto e della prima strada a fondo artificiale. In una iscrizione celebrativa si legge: viam Appiam stravit et aquam in urbem adduxit. Lastricò la via Appia e portò l’acqua in città.
La strada è una metafora potente. Ci consente una considerazione ulteriore a proposito della relazione tra i Romani e noi, e tra noi ed il senso del bene comune, della res publica: ad un certo punto del suo libro, che è molto tecnico, tanto da mettere alla prova la conoscenza del sistema numerale romano di qualsiasi studioso di latino, Frontinus perde la pazienza e scrive:
Tot aquarum tam multis necessariis molibus pyramidas velicet otiosas compares aut cetera inertia sed fama celebrata opera Graecorum.
“Provati un po’ a confrontare le piramidi, che non servono proprio a niente, o le altre opere dei Greci, tanto famose e celebrate ma assolutamente inutili, con questo imponente sistema di strutture, così vitali, che trasportano così tante acque”.
Noi abbiamo distrutto le strade di Roma e lasciato che gli acquedotti andassero in rovina senza prenderci neppure pensiero di studiarli come si dovrebbe. Però, celebriamo le piramidi e leviamo al cielo le lodi dell’arte greca, i cui capolavori accumuliamo nei musei come tesori.
Capisco che stiamo vagabondando ma qualche volta, se vai cercando la strada, càpita. D’altra parte, cercare una strada non è privo di senso. Significa sforzarsi di intravedere la direzione giusta e il modo corretto per arrivare ad una meta. Vi chiedo, dunque, un poco di pazienza. Dobbiamo rimettere insieme i pezzi di un rompicapo abbastanza complicato. Alla fine, quando saremo arrivati, andrà tutto a posto.
Dunque: Pelonga è stato un posto molto importante. In uno studio recente, curato dalla prima università di Roma, che dovrebbe indicare su mappa tutti i luoghi di interesse archeologico del Lazio centrale e meridionale, sono stati inseriti anche alcuni dei tumuli di pietra di Pelonga, che erano stati considerati a lungo “manufatti agricoli” o pure “risultato di lavori di sgombero dei terreni”.
La mappa è disponibile sul web: lazioantico.it. Ci sono alcuni errori, parecchie omissioni, varie imprecisioni ma, complessivamente, è uno strumento importante in cui, finalmente, i tumuli di Pelonga non sono considerati più semplici “mucchi di sassi”. La datazione attribuita è ipotetica e molto alta: 925-726, ma i resti ceramici circostanti e i pochi studi precedenti puntano in quella direzione. A me interessa la specificazione “non identificato”, che significa: questi manufatti debbono essere studiati e la loro natura precisata in modo più specifico. Non sono, in nessun caso, banali “mucchi di sassi”. Bisogna che, prima o dopo, qualcuno se ne occupi.
Nei decenni, il territorio di Pelonga è stato sottoposto ad una costante e perfino minuta azione di asporto dei reperti antichi più significativi. Non ha funzionato qualcosa nella comunicazione tra chi vive o lavora o frequenta quei luoghi e chi è preposto allo studio ed alla tutela della memoria del passato. Ci siamo occupati troppo di speculare su quel che conoscevamo e troppo poco di studiare quel che non conoscevamo e non riuscivamo ancora a vedere. Intanto, appassionati, entusiasti e curiosi accumulavano ricordini.
Consideriamo ancora il lavoro, così utile, della università di Roma. Se guardate l’area tra Alatri e Ferentino, con Monte San Marino al centro, vedete che dal versante di Ferentino, a sinistra, è stata segnalata e acquisita agli studi una quantità notevole di reperti, che hanno reso possibili molte ricerche e ritrovamenti ulteriori. Sul versante di Alatri, a destra, le segnalazioni sono pochissime. Ci si aspetterebbe, al contrario, che il versante di Alatri, esposto a Sud-Ovest e protetto verso Nord dal crinale montuoso, fosse stato, in età antica, più frequentato. Sul terreno, infatti, è rimasta una quantità notevolissima di reperti ceramici minuti. Si può ritenere, allora, senza timore di sbagliarsi, che i pezzi più vistosi e più grossi siano stati asportati. Che il motivo della scarsità delle segnalazioni sia questo. Chi porta via qualcosa, dopo ha timore di parlare. Perciò, nella tradizione degli studi, per la scarsità dei dati, s’è concluso che il sito sia stato, in antico, poco frequentato.
Se riuscissimo a costruire un dialogo, a diffondere una consapevolezza nuova e più autentica, a comunicare che un reperto antico, un pezzo di coccio rotto, in se stesso, non vale niente e però contiene un valore inestimabile di conoscenza a condizione che possa essere studiato dove le vicende complicate degli uomini e delle cose lo hanno lasciato e viene rinvenuto: lo sforzo di comprensione del nostro passato potrebbe essere molto più efficace e fecondo di risultati.
Si può fare. È stato già fatto. La storia esemplare di Pofi e del sindaco Pietro Fedele dimostra che, se si attivano e si tengono aperti i canali della comunicazione tra la comunità e le istituzioni, si ottengono risultati notevolissimi. A proposito: quando avremo finito qui, credo sia una buona idea guardare www.museopreistoricopofi.com. O proprio fare una passeggiata fino a Pofi. Un museo, gestito in modo intelligente, può essere motore e lievito di cultura all’interno di una comunità. L’idea del compleanno al museo è tanto bella che merita di essere replicata anche altrove. Un museo ed un compleanno hanno in comune il tempo. Parlano entrambi del tempo, del trascorrere, del senso dell’essere e dell’essere stati. Perciò, del significato e del valore della vita. Per questo, le immagini dei bambini che giocano e festeggiano dentro il museo sono belle e commoventi. I bambini sono il futuro. Il museo testimonia le età trascorse. I bambini che imparano, giocando, cosa siamo stati, chi siano i nostri avi: saranno adulti consapevoli e pensosi del bene della comunità. Un museo che si limiti ad esporre tesori: è un luogo che parla soltanto di morte, di lussi esibiti, di ricchezze, di potere. Come un Trimalchione dall’animo disordinato qualunque. Tutta roba poco umana. Agghiacciante come la palude di Cocito.
Una imboccatura di dolio – un dolio è una specie di grossa botte sferica di terracotta di due metri di diametro – non ha un valore economico. Se te la porti a casa diventa soltanto un soprammobile parecchio ingombrante e ti tocca pure spolverarlo ogni settimana. Magari, ti pare carina, almeno all’inizio. La puoi mostrare a qualche amico fidato: ma con il vincolo del segreto, per carità. Forse, il fatto di possederla ti comunica un senso di orgoglio. Ti pare accresca il valore di quel che tu significhi nel mondo. Ma, in se stessa, non significa assolutamente più niente. È una cosa morta. Se lo lasci dove l’hai trovato e avverti qualcuno – il direttore del museo, prima di tutto, che sta là apposta, oppure il sindaco, che è il custode del patrimonio archeologico, o i carabinieri, benemeriti anche nella tutela delle testimonianze della storia – quel pezzone di coccio può servire a individuare l’area di una fattoria romana. Lo studio di quella fattoria può consentire di identificarne altre. Lo studio di un complesso di fattorie romane può aiutare a ricostruire la storia del territorio in età antica e, perciò, a comprendere le nostre radici e il nostro passato. Ci può aiutare a capire chi siamo. A guardare negli occhi i nostri antenati. Ad immaginare da dove veniamo. A leggere lo spazio in cui viviamo. E, magari, a dare un miglior senso al nostro futuro perché la parte veramente importante di un albero sono le radici.
Allora: mettersi in tasca un pezzo di coccio non è un gesto banale o privo di conseguenze. Meglio di no.
Per chi vive ad Alatri, dicevamo, oggi Pelonga è un posto periferico. Conosco un sacco di gente che non c’è mai stata. In questi anni, quasi tutte le persone che mi accade di frequentare, qui ad Alatri, m’hanno detto, prima o dopo:”Mi devi portare a Pelonga”. Rispondo sempre allo stesso modo: “Quando vuoi. Chiamiami e andiamo”. Non ha mai chiamato nessuno. Anche se saranno al massimo dieci minuti di automobile. È come se un artefatto culturale, un interdetto mentale di qualche tipo ci separasse, ci tenesse lontani da Pelonga. Venti secoli fa, invece, ci passava un sacco di gente per andare verso la via Latina o per venire dalla via Latina ad Aletrium e, passata Aletrium, arrivare fino a Tibur e a Roma.
Se avrete pazienza, credo che alla fine di questa storia riusciremo anche ad intravedere la radice, l’origine remota di questo interdetto e di questo artefatto a causa del quale Pelonga è diventato un non-luogo.
La via Latina percorreva la valle Latina, che è stata l’orto, il pascolo ed il primo granaio di Roma, e ed entrava a Roma per porta Latina. Nell’altro senso, si allungava fino a Capua. Non porta il nome del costruttore ed è il risultato della sistemazione – come la via Labicana e la via Tiburtina – di tracciati precedenti che, probabilmente, risalivano alla preistoria. La via Latina è certamente più antica dell’Appia. Metteva in comunicazione, prima di tutto, Roma con i socii, gli alleati del nomen Latinum: i Latini in senso proprio e gli Ernici.
Era un luogo centrale della identità. I consoli di Roma, subito dopo l’elezione, salivano per la via Latina fino al tempio di Iuppiter Latiaris in cima al mons Albanus. Nel territorio di Rocca di Papa. Lì compivano una speciale cerimonia augurale. Guai al console che avesse esercitato i propri poteri inaugurato.
Sul Mons Albanus si celebravano le Feriae Latinae, una festa antichissima, che riuniva tutte le città della Lega Latina. Si offriva in sacrificio un toro bianco che non avesse mai sentito il peso del giogo. I rappresentati di ogni città ricevevano una parte delle carni.
Se il console eletto non avesse compiuto questa cerimonia prima di entrare in carica – Latinis feriis actis, sacrificio in monte perfecto -: il destino avrebbe riservato per lui e per Roma gravi sventure.
Livius racconta, tra la fine del XXI e l’inizio del XXII libro, che Gaius Flaminius assunse il comando dell’esercito inauspicato, senza aver compiuto i riti prescritti. Sia stata protervia, sia stata ignoranza della tradizione, come sostenne in senato Quintus Fabius: l’inosservanza dei riti provocò l’ira degli dei e costò la sconfitta del Trasimeno, che era stata annunciata da presagi funesti di ogni tipo.
Se guardate in Valerius Maximus, de religione e de auspicio, trovate altre storie simili.
Adesso: vale la pena di guardare una carta. È la mappatura dello spazio di Roma cui stanno lavorando Johan Åhlfeldt e il Centre for Digital Humanities dell’University of Gothenburg. La trovate qui: https://imperium.ahlfeldt.se. Per chi si occupa della storia di Roma antica, è uno strumento fondamentale. Io la tengo sempre davanti quando leggo Caesar, Livius, Tacitus, Ammianus. Ci torneremo tra un po’. Intanto, siccome abbiamo finito, per oggi, vi chiedo di studiare il sistema della viabilità tra Roma ed Aletrium. Guardate la linea rossa che parte dalla via Latina dove c’è la nostra Madonna della Neve e taglia dritto fino ad Aletrium. Il tracciato è completamente sbagliato ma è la strada che stiamo cercando.