La via Tiburtina ad Alatri II

L’orizzonte complessivo che si osserva a Pelonga mostra evidenti due dati fondamentali:

1. la eccezionale densità e la varietà dei frammenti ceramici, che sono distribuiti lungo un arco di tempo molto ampio; si tratta soprattutto di materiali minuti perché i pezzi di maggior interesse “collezionistico” sono stati aportati e vengono custoditi da privati;

2. la densità e la numerosità delle fattorie e, perciò, del popolamento d’età romana;

Sul terreno, sparsi un poco dovunque, ci sono anche frammenti di tegoloni e di doli.

I doli (in latino dolium, –ii) erano contenitori approssimativamente sferici, come sorta di cisterne, o botti, di terracotta assai spessa. Avevano un diametro variabile tra un metro e mezzo e due metri ed una capacità tra 1500 e 2000 litri. Erano muniti di una bella imboccatura, ampia abbastanza per il passaggio di una persona. Se riempi un dolio di grano, prima o dopo ci devi entrare dentro: come quando eravamo bambini e la nonna ci calava nella madia per raccogliere con la scopetta gli ultimi chicchi sul fondo. Venivano interrati ed adibiti alla conservazione dei prodotti dell’agricoltura, aridi e granaglie soprattutto, o alla fermentazione del mosto e all’invecchiamento del vino. La naturale porosità della terracotta e l’isolamento assicurato dal terreno garantivano condizioni di temperatura e di umidità ragionevolmente costanti con un consumo energetico ed una impronta ambientale prossima a zero. I doli erano una tecnologia di conservazione degli alimenti molto efficiente.

I doli pesano quintali e sono difficili da trasportare. Erano costruiti con le mani, per sovrapposizione, lisciatura e levigatura di successivi cordoni di argilla. Il forno per la cottura veniva realizzato, sul posto, intorno al dolio in argilla cruda, e veniva smontato quando la lavorazione era stata completata. La fabbricazione di un dolio richiede molta perizia e molto lavoro. Ne ho visto costruire uno in Turchia orientale. Sono stati necessari, cottura compresa, dieci giorni del lavoro di cinque artigiani provetti, dalla depurazione della argilla grezza al prodotto finito.

Dove, come a Pelonga, ci sono frammenti di doli sparsi in giro: ci debbono essere state anche attività agricole significative e, dunque, proprietà agricole produttive e organizzate. Fattorie, o villae, o praedia, o fundi.

Insieme ai frammenti di doli e di tegoloni romani, sparpagliati sul terreno ci sono pezzi di ceramica comune romana di ogni dimensione e spessore. Dai fondi, dai bordi, dagli spessori e dai manici si riconoscono senza difficoltà tazze, coppe, bicchieri, contenitori di varia misura lavorati, naturalmente, al tornio. Testimoniano la vita quotidiana. Le attività produttive. La presenza di un numero consistente di persone impegnate nella lavorazione dei terreni.

Qua e là, capita di imbattersi in grossi frammenti di cocciopesto, che è un impasto di calce e tritume di terracotta e, occasionalmente, pietrame minuto. In spessori variabili da dieci a quindici centimetri, almeno a Pelonga, serviva per pavimentare gli ambienti rustici delle abitazioni: locali seminterrati o a piano terreno, di servizio o destinati alla vita quotidiana. Soltanto gli ambienti padronali delle fattorie più grandi erano pavimentati a mosaico. Il cocciopesto poteva essere realizzato con materie prime locali. Non richiedeva componenti che arrivassero da lontano. Consentiva il rempiego d’una parte almeno del cocciame che risultava, in grandi quantità, dalle vicende ordinarie della vita e del lavoro. La calce veniva prodotta sul posto – c’è calcare in abbondanza – e i cocci stavano in giro dappertutto. Ha eccellenti caratteristiche di traspirabilità ed igrometria. Protegge gli ambienti dalla umidità del terreno e li mantiene asciutti. È un isolante termico molto efficace. Veniva adoperato anche come sottofondo isolante e livellante per pavimentazioni di pregio. Ha dimostrato di reggere ai millenni anche se esposto agli agenti atmosferici. Una varietà di questa malta, per completezza di catalogo, veniva impiegata per intonacare le cisterne, in sostituzione delle malte pozzolaniche, che hanno caratteristiche di impermeabilità migliori ma erano più costose.

Se c’è tanto cocciopesto, ci debbono essere stati tanti cocci: che significano la presenza e l’attività di tante persone. C’è un pezzone di cocciopesto a valle della così detta “cisterna” di Monte Capraro che misura quasi un metro quadrato.

La quantità e la distribuzione ampia sui versanti di questi materiali, dunque: testimoniano un popolamento denso e di lungo periodo in età romana. Se si preferisce: una messa a coltura del territorio intensa e una attività umana di notevole rilievo.

Il che, alla fine, non è una novità. Era arrivato alla medesima conclusione il prof. Gasperini per la strada, del tutto diversa, e meno insidiosa, dell’esame dei materiali epigrafici cittadini e dei toponimi prediali, così frequenti nel nostro territorio. Cassiano da una gens Cassia o da un Cassius, Cosciano da una gens Cossia o da un Cossius, Magliano da una gens Manlia o da un Manlius, Pignano da un Plinius o Pinius o da una gens Plinia o Pinia, e continui da sé l’accorto lettore nella ascrizione a rubrica. Una magistrale, accuratissima ricognizione dei dati epigrafici e toponomastici ha condotto il prof. Gasperini ad affermare “in palmare evidenza la grande, capillare romanizzazione dell’agro aletrinate” (Gasperini, 1964, p. 90).

Quel che si osserva sul terreno a Pelonga punta nella medesima direzione. Peccato che la questione sia sfuggita del tutto ai redattori della guida archeologica cittadina. In ogni caso, se c’è il nome del luogo, ci deve essere stato anche il luogo. Se una zona viene denominata con un nome di proprietà prediale, ci deve essere stata la proprietà e, perciò, la villa rustica, la fattoria che ne era il centro funzionale.

Associati ai frammenti di doli, tegoloni ed altra minutaglia d’uso quotidiano, a Pelonga sono evidenti affioramenti superstiti di muri, pavimenti ed altre strutture certamente romani che resistono ai malestri del tempo e delle attività umane. Sono distribuiti lungo tutto l’ampio anfiteatro naturale esteso da Colle Drago a Monte Capraro e, ancora, sul versante occidentale di Monte Reo. Sulla sommità del quale, un pianoro mostra evidenti i segni d’una antica centuriazione. Quando i terreni circostanti vengono arati, o scavati per l’impianto di un uliveto, li si trova dissodati in profondità. Pressoché privi di pietrame. Affiorano invece altri frammenti ceramici, di ogni dimensione e tipo.

Dove sopravvivono le murature più significative, il terreno non può essere coltivato ed ha consentito, nel tempo, la crescita d’una varia vegetazione spontanea. Ho imparato che, se vedi una macchia di quercioli, di sommacchi, di alberi di Giuda in mezzo ad un oliveto e, intorno, noti sul terreno pezzi di tegoloni e altre terracotte romane, devi guardare bene in mezzo alle piante e agli arbusti.

A Pelonga, per un esempio, si distingue ancora bene l’impianto, ben conservato, d’una fattoria, che è stato tagliato da una strada moderna, lungo i margini della quale ci sono accumuli di cocciopesto e frammenti di varie terracotte romane, tegoloni compresi. A destra della strada, per chi dia le spalle ad Alatri, sopravvive il piano seminterrato con soffitto a volta di una villa rustica, al quale non si può accedere perché il passaggio è stato ostruito. Introducendo una macchina fotografica in un foro della volta prodotto da un crollo parziale, s’è ottenuta una immagine nella quale si osserva un ambiente ampio, che comunica con un secondo mediante un passaggio sormontato da un arco in pietra. Restino però avvertiti i curiosi che lì sotto c’è una tana di selvatici, di cui si percepisce forte il lezzo. Si tratta, probabilmente, di cinghiali, sicché è necessaria molta attenzione.

Di solito, questi spazi erano destinati a rimessa e ad alloggio per schiavi. In questo secondo caso, in latino si chiamano ergastulum. Catone Seniore, de re rustica, consiglia di incatenare bene gli schiavi nell’ergastulum durante la notte perché non si può mai sapere cosa potrebbe passare loro per il capo.

Sul lato sinistro della medesima strada, a una ventina di metri di distanza dalla carreggiata e pressoché alla stessa quota altimetrica del solaio dei locali seminterrati, durante lavori di aratura sono affiorate tessere bianche e nere d’un mosaico poi adoperate, a quel che dicono, per decorare un camino.

Si delinea, dunque, una struttura complessa e di grandi dimensioni: a destra della strada attuale locali di servizio pavimentati a cocciopesto; a sinistra, una zona padronale pavimentata a mosaico. La distanza tra i due affioramenti è di quaranta metri circa. Una struttura di queste dimensioni rinvia ad un proprietà di grande estensione.

Sul terreno, da entrambi i lati della carreggiata, c’è una quantità notevole di frammenti minuti di terracotta, tra i quali alcuni pezzi di tegoloni. I reperti più significativi pare siano stati asportati da un appassionato locale che portava avanti certe sue indagini. Non mi risulta ne sia arrivata nemmanco la notizia al museo comunale. Spero di sbagliarmi.

Capisco di essere noioso, con questa lagna dei reperti che scompaiono e diventano irreperibili ma è una faccenda che mi dà sui nervi perché è un furto di memoria e, perciò, di identità. Sommati insieme, tanti piccoli gesti di sequestro della memoria compiuti da cittadini privati creano un vuoto, dentro il quale altri appassionati locali trovano ampio agio di fabbricare teorie delle origini a dir poco imbarazzanti. Le quali rappresentano un ulteriore e, forse, più grave sequestro di identità.

Non può essere che un tizio renda visibili, in un noto ambiente di pettegolezzo che, per quanto telematico, sempre pettegolezzo è: le fotografie di una ciotola del tardo bronzo o del primo ferro, che gli è stata mostrata da un altro tale, il quale l’ha trovata, in compagnia di altre simili, che non ci è dato di considerare neppure in immagine, “dentro un anfratto”, e adesso le custodisce tutte insieme al sicuro, cioè a casa sua: e non succeda niente. Quell’anfratto è indizio sicuro di un’area di altissimo significato storico ed archeologico perché le sepolture non sono mai isolate. Perciò, rinvia ad un insediamento stabile e di lungo periodo che racconta la storia dei nostri avi. In questi casi, chi ne ha capacità e responsabilità si deve alzare immediatamente dalla sedia e deve andare a parlare con entrambi i signori: e, soprattutto, deve vedere un poco bene di che anfratto stiamo parlando.

Non può essere che un terzo signore tenga in casa un’ascia in selce bionda del neolitico finale, la mostri in giro anche a funzionari e competenti, e la fotografia gironzoli da un telefono all’altro, e non succeda nulla. Dove è stata trovata questa ascia? Quella è un’area di grandissimo interesse antiquario. Va tutelata. La lasciamo così? Non ce ne occupiamo?

Le fattorie romane di Pelonga non sono mai state studiate in modo sistematico. Anche riguardo i pochi dati acquisiti, si sono sedimentati errori e sviste che, consolidati dalla tradizioni degli studi, sono finiti nella mappatura digitale di lazioantico.it . Il manufatto identificato come “cisterna” di Monte Capraro è, in realtà, il piano seminterrato di una grande fattoria, della quale si può ricostruire abbastanza bene l’impianto, esteso per almeno trentacinque metri. Non è una cisterna perché, banalmente, non c’è malta idraulica. Sopra questa struttura è rimasto, ragionevolmente conservato, un ambiente al piano terreno con pavimento a cocciopesto. Negli uliveti sottostanti sono dispersi grandi pezzi di cocciopesto.

La volta di quell’ambiente che, di nuovo, è piuttosto il piano seminterrato o, se si preferisce, il criptoportico di una struttura assai grande, sta crollando. È un posto pericoloso. Da quando è uscito Pelonga, là sopra c’è una varia attività di turisti e curiosi. C’è una associazione che organizza visite e passeggiate. Bisogna provvedere a mettere in sicurezza l’area perché la muratura periclita.

Quel sito specifico almeno meriterebbe di essere studiato meglio. Magari prima che finisca di crollare. Si trova vicino ad un lungo muro in pietra poligonale. Un poco più in alto del quale c’è un lacus in muratura e malta idraulica. Adesso ci crescono dentro alcune belle piante di bosso. Secondo Columella, invece, in una fattoria romana serviva soprattutto da abbeveratoio. Nei pressi del lacus, mi dicono i locali, c’era, attiva fino a trenta anni fa, una sorgente perenne.

Prima o dopo, a proposito, dovrò sistemare le osservazioni e le fotografie che ho messo insieme, in questi anni, sulle opere di regimazione e prelievo delle acque a Pelonga e sulla relazione tra questa rete idraulica e le strutture edificate. In passato c’era evidentemente più acqua che ora e bisogna capire bene la relazione tra le fattorie romane, le acque superficiali e le falde freatiche. Anche solo se guardi un’immagine da satellite, il colore verde intenso dell’erba in ogni stagione dell’anno ti consente di seguire l’andamento di una falda di modesta profondità ma notevole ampiezza e vena abbondande che scende da Monte Capraro, proprio vicino alle strutture della “cisterna”, piega a sinistra, all’altezza di Pelonga, nei pressi della fattoria che ha restituito tessere di mosaico, continua a valle delle rovine di una chiesa che rimonta, verosimilmente, all’alto Medioevo, e segue il declivio fino a Canale. Appena passata la chiesa, verso Sud, lungo il pendio: c’è un pozzo moderno, che consente di verificare la presenza di acqua nella falda in ogni periodo dell’anno. Nei periodi di pioggia, anzi, la falda affiora in superficie. Si formano grosse pozzanghere che rimangono lì per giorni.

Insomma: nel territorio che stiamo considerando sopravvivono gli impianti d’una decina di villae rusticae, come vengono definite, non del tutto propriamente, nella tradizione degli studi. Un altro lavoro da fare, dunque, è documentare, registrare su mappa e georeferenziare le strutture superstiti. Se ci riuscissimo, cominceremmo a capire un poco meglio le relazioni con il territorio, tra le fattorie in se stesse e con la strada che andiamo cercando.

Abbiamo familiari queste villae rusticae più per come i Romani le avrebbero volute che per com’erano veramente. Ci sono rimaste le prescrizioni di Vitruvio e le considerazioni dei tre trattati latini di agricoltura: il liber de agri cultura di Marcus Porcius Cato, il de re rustica di Marcus Terentius Varro e il de re rustica di Lucius Iunius Moderatus Columella.

Si trattava di unità complesse con una corte, un’aia, una stalla per le vacche, vicino alla quale secondo Vitruvius andava collocata la cucina. Sulla corte si affacciavano anche un ovile ed una stalla per cavalli ed asini. Ci potevano essere un frantoio, con annesso locale per la conservazione dell’olio in giare e dolii, e una cantina per la pigiatura dell’uva, la fermentazione del mosto e l’invecchiamento del vino. Ancora secondo Vitruvius, il granaio andava collocato sul lato settentrionale.

Nel trattato di Columella sono menzionati una tettoia per il ricovero di carri e altri attrezzi, un locale per tener chiusi sotto chiave gli arnesi di ferro (ferramenta), un’area padronale, un bagno, una cisterna, un lacus, una fossa per il letame, un pollaio, un porcile e un colombaio.

Poi, nella realtà, ci saranno state notevoli variazioni dimensionali e tipologiche, in relazione alla estensione dei terreni ed alle capacità econoniche della proprietà. Ma insomma, stiamo considerando gli ambienti di insediamenti agricoli ragionevolmente autosufficiente e, perciò, di medie o di grandi dimensioni. Ne sono stati segnalati centinaia nel Lazio ed in Etruria ma mancano, per quel che ne so, studi e scavi sistematici perché, con un terzo dell’abitato di Pompei ancora da studiare, solo per un esempio, ed un patrimonio immenso già acquisito da tutelare e porre in valore, i pochi funzionari che se ne occupano con mezzi economici non sempre larghissimi: è chiaro che non ce la possono fare. Servirebbe un esercito di archeologi e la società civile ha altre priorità.

Conosciamo abbastanza bene, però, un sistema di fattorie che si trovava tra il fianco meridionale del Vesuvio e la città di Pompei, nell’area di Boscoreale. È stato sepolto dalle ceneri vulcaniche dell’eruzione del 79. Se fate una ricerca, guardate qualche pianta e ci pensate un poco su: si comincia a capire di cosa stiamo parlando qua sopra a Pelonga.

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