Escape Tiburtina III

Spero abbiate guardato le piante delle fattorie romane di Boscoreale perché aiutano a capire di cosa stiamo parlando. Sui nostri terreni – dico nostri nel senso della comunità, della storia e del patrimonio di conoscenza che appartiene alla nostra comunità – ci sono sopravvivenze e testimonianze di strutture come quelle.

In una fattoria romana, oltre alla famiglia allargata dei proprietari, vivevano e lavoravano contadini di varia condizione. Soprattutto, ma non solo, schiavi. Secondo Columella, una fattoria poteva essere gestita come latifondo padronale o a mezzadria oppure data in affitto . Nel primo caso, era diretta da un vilicus che, schiavo egli stesso, organizzava e sorvegliava le attività degli altri schiavi; era soggetto a sua volta al controllo di un procurator, un amministratore, il quale rappresentava direttamente il proprietario, e del proprietario stesso. Nel secondo caso, l’unità produttiva era data in gestione ad un colonus partiarius, o mezzadro, l’attività del quale era sorvegliata direttamente dal proprietario o da suoi rappresentanti. Nel terzo, si definivano per contratto l’entità e la modalità dei pagamenti dovuti dal conductor, il nostro fittàvolo.

Gli schiavi, tra quelli sciolti, soluti, e quelli legati alla catena, vincti, erano agli ordini di un magister operum, un direttore dei lavori. Nelle fattorie di dimensioni maggiori erano organizzati in squadre di dieci lavoratori. Alcuni erano specializzati. Columella elenca aratores, vinitores, bubulci (mandriani), subulci (porcari), domitores (allevatori di cavalli), asinarii, opiliones (pastori).

Durante i periodi dei grandi lavori stagionali, gli schiavi potevano essere affiancati da braccianti di condizione libera assunti dal vilicus, dal colonus o dal conductor. Insomma, una organizzazione complessa.

Adesso, le fattorie romane tra Pelonga, Monte S. Marino, Tecchiena e Monte Reo non le abbiamo contate e neppure segnate su carta ma, per quel che abbiamo visto e di cui siamo certi, erano almeno una decina. Almeno tre erano di grandi dimensioni. Una, a Pelonga, era grandissima.

Il prof. Gasperini ha pubblicato, nel 1964, una iscrizione terminale latina su piccolo parallelepipedo di conglomerato calcareo rotto in alto e in basso che era stata rinvenuta proprio a Pelonga nel 1936 e che dovrebbe essere conservata “in casa del Comm. Valerio Molella”. Purtroppo, è molto rovinata. Si leggono bene le parole recto fini: “secondo una linea di confine dritta”.

Una delle funzioni essenziali della religione romana era il raffreddamento dei conflitti sociali. Le liti di confine possono diventare una faccenda brutta. Perciò, i limiti delle proprietà rurali erano segnati da pietre consacrate a Iupiter Terminalis o, nella forma breve, Terminus. Al dio era dedicato un tempio sul Campidoglio, in cui veniva venerato nella forma di un cippo squadrato a quatto facce: una pietra di confine, appunto.

Con il trascorrere del tempo, il blocco di pietra divenne un’erma: nella parte superiore veniva scolpito con le sembianze del dio ma senza braccia né gambe, perché ogni confine istituisce un limite oltre il quale solo il proprietario può lavorare la terra e che nessuno può oltrepassare con intenzioni non lecite. Chi avesse violato il limite sancito dal dio, diventava sacer, tabù, esecrabile agli occhi della comunità, male augurato perché incorreva nella maledizione della divinità e, di conseguenza, apparteneva alla sua sfera ominosa. Secondo alcune fonti, poteva essere perfino ucciso impunemente.

Così, per un esempio, in Festus: Termino sacra faciebant, quod in eius tutela fines agrorum esse putabant. Denique Numa Pompilius statuit, eum, qui terminum exarasset, et ipsum et boves sacros esse.

“Celebravano cerimonie sacre per il dio Terminus, poiché ritenevano che fossero tutelati da lui i confini dei terreni coltivati. Di conseguenza, Numa Pompilius stabilì che colui, che avesse arato il confine: sia lui che i buoi fossero tabù”.

Si collocavano queste pietre lungo i confini delle proprietà terriere, che erano perciò garantiti e sorvegliati dalla divinità, il cui culto era antichissimo. Se ne attribuiva l’istituzione, s’è visto, a Numa Pompilio, come tutti i riti fondativi più antichi della religione di Roma. Veniva celebrato quando terminava l’anno precedente e cominciava l’anno nuovo: lungo una linea temporale di confine tra una fine ed un inizio. Il calendario arcaico di Roma faceva iniziare l’anno a Marzo. Il giorno festivo dedicato al dio Terminus cadeva sei giorni prima delle Calende di Marzo. Più o meno, il 23 febbraio. Era un dies nefas, durante il quale non si potevano svolgere attività civili, giuridiche o amministrative: consacrato al culto esclusivo della divinità. I due proprietari di fondi adiacenti si incontravano, con le famiglie e gli schiavi, dove era collocata la pietra di confine, incoronavano il dio, o il cippo di confine, con ghirlande di fiori, costruivano un piccolo altare, che era provvisorio perché sul confine non possono essere edificate opere permanenti, e offrivano grano e vino, che sono l’alimento e la bevanda prodotti dalla terra coltivata, insieme a miele, che è il nutrimento donato dalla natura quando è feconda. Terminus rifiutava i sacrifici di animali e i doni cruenti. Il sangue non può essere offerto a chi sorveglia i confini perché lungo i confini non deve scorrere sangue. Compiuto il sacrificio, si cucinava un agnello o un maialino, che veniva mangiato in banchetto comunitario da tutti i presenti. Ci saranno stati musica, canti, balli cui prendevano parte anche le familiae servili. Tutte le festività religiose romane prevedevano un rito, un banchetto e una festa. La cerimonia, ripetuta ogni anno, il pasto condiviso, il festeggiamento ribadivano la consapevolezza della linea di confine, la consacravano, rendevano improbabili le liti e assicuravano una efficace manutenzione dei rapporti di buon vicinato.

La pietra di confine rinvenuta a Pelonga ci conforta riguardo la presenza, in età romana, di una proprietà agricola ordinata e socialmente organizzata.

Ad una stima grossolana, basata sulla estensione dei terreni dissodati in profondità, sulla dimensione e sul numero delle fattorie, di cui il terreno conserva tracce e memorie, e su quel che sappiamo della agricoltura romana, possiamo affermare con animo sereno che a Pelonga lavoravano almeno alcune centinaia di persone.

Le coltivazioni prevalenti erano la cerealicoltura, l’olivicoltura e la viticoltura, alle quali erano associate la pastorizia e altre pratiche – orticoltura, allevamento di animali da stalla, da cortile e da lavoro, apicoltura, frutticoltura – destinate soprattutto all’autoconsumo.

Ancora negli anni cinquanta del Novecento a Pelonga si mietevano cinquecento quintali di grano ogni anno e tutti gli anziani se lo ricordano benissimo. Variamente distribuite sul territorio, si osservano ancora molte aie destinate alla trebbiatura. Alcune si trovano dentro l’area del rimboschimento recente o sono circondate da terreni abbandonati che, nell’aspetto attuale, a tutto fanno pensare tranne che alla coltivazione dei cereali. Se mappassimo le aie, che sono tante, ma non sarebbe opera difficile, ne risulterebbe una carta che ci aiuterebbe a capire meglio la storia dell’agricoltura nel nostro territorio.

Adesso: i Romani saranno stati pure i più grandi ingegneri della storia ma come ce li hanno portati, lì sopra, tutti i materiali da costruzione che sono serviti per edificare le fattorie e che stanno ancora, dopo millenni, sparsi in quantità sui terreni? E che ne facevano del grano, del vino, dell’olio che producevano? Dove li portavano? E come li trasportavano? Non certo soltanto a dorso d’asino. Certo, adoperavano asini e muli. Ma come lo sposti un dolio su per quei pendii senza farlo rompere? Ti serve un carro tirato da buoi. Dunque, hai bisogno di una strada a fondo artificiale. Come le fai arrivare le tegole fino a Monte Capraro? Le tegole romane erano robe mica da poco. Secondo Lugli, i cui studi in proposito rimangono fondamentali, la misura più comune delle tegole piane romane era 57×41 centimetri, con uno spessore medio di 3.5 centimetri. A Pelonga, però, lo spessore pare un poco minore: da 2 a 3 centimetri. E comunque, anche il trasporto delle tegole richiede dei carri. Per far muovere i carri, ci vuole una strada a fondo artificiale che possa essere percorsa con ogni tempo e in ogni stagione.

Stiamo accumulando indizi e dati ma continuiamo ad andar bizzoconi. Mettiamoci un poco seduti e tentiamo un esperimento mentale. Immaginiamo di stare a Colle del Passero, un poco più a Sud di Monte San Marino, nel I secolo dell’era nostra. Voltiamo le spalle a Monte Reo e, davanti a noi, osserviamo l’ampio declivio curvilineo disteso da Colle Drago a Monte Capraro. Qua e là, sui versanti, ci sono dieci fattorie romane. Tre sono molto grandi; una è grandissima. Altre, un poco più piccine. Sono circondate da oliveti e da vigneti. È maggio. Il grano comincia ad imbiondire. Nei campi, i contadini badano ai loro mestieri. Qua e là, dove il terreno è più impervio, non ancora dissodato, con molti pietroni sparsi in giro: pascolano pecore e capre. Per i campi, le vigne e i coltivi i contadini badano ai loro mestieri. Ci sono asini, muli, cavalli che pascolano liberi; altri lavorano con i contadini o li aspettano legati agli alberi o alle staccionate. Vedi greggi di pecore e di vacche; bambini che giocano; ragazzi appena più grandi che aiutano nei lavori perché in campagna si comincia presto.

Adesso, risaliamo la china fino a Monte Capraro. È un poco ripido ma siamo di gamba buona e in quindici minuti arriviamo in cima. Non ci passa neppure per il capo di seguire la strada moderna, che gira e rigira per curve e tornanti. Da quassù, lo spettacolo è magnifico. Si vedono benissimo la piana di Tecchiena e di Frosinone. Monte Reo ci preclude, ma solo in parte, la vista della Valle Latina. Oltre il colle di Frosinone, percorriamo con lo sguardo tutta la valle del Liri, fin quasi a Casinum. Dalla cima di monte Capraro, si vede biancheggiare, a quattro o cinque miglia romane di distanza, il nastro del basolato calcareo della via Latina, che scende dal colle di Frusino, percorre la piana ed entra nella valle Latina.

Sicché, l’ipotesi dell’esistenza di una strada a fondo artificiale da Pelonga alla via Latina non è soltanto verosimile. È necessaria. Vuoi che, prima o dopo, non abbiano costruito una strada per arrivare ad uno dei vettori di traffico più importanti del mondo romano? Con tutta la gente che lavorava e produceva qua sopra? E Aletrium subito alle spalle?

Monte Capraro è in una posizione strategica. Consente di osservare, da una posizione defilata e sicura, i movimenti lungo la via Latina. Quando Annibale, distrutte a Canne le legioni, passò per la valle Latina diretto a Roma, chi si fosse trovato a Monte Capraro avrebbe potuto osservare, senza correre alcun pericolo, la sfilata dell’esercito cartaginese. Se avesse avuto disponibile una strada alternativa, avrebbe inviato un corriere a Roma per avvertire della minaccia. Hannibal ad portas.

Chiunque abbia letto i primi dieci libri ab urbe condita di Livius sa quanto sia frequente e quasi stereotipo il modulo narrativo del messaggero ernico che arriva a Roma per avvisare che i Volsci hanno radunato un esercito, cominciato a saccheggiare campi e fattorie isolate e stanno per assalire la città.

Frusino era una città volsca. I Volsci sono stati un popolo forte e combattivo. Hanno lottato con fierezza, insieme agli Equi ed agli Etruschi, nei primi secoli di Roma, contro la nuova città e la sua espansione nel Latium adiectum. Da una parte, Romani, Latini ed Ernici, che tutti insieme costituivano il nomen Latinum, la comunità di coloro che parlavano una varietà di latino. Dall’altra, i loro nemici secolari: Volsci, Equi, Etruschi.

Livius racconta che i Volsci, pressoché ogni anno, a primavera, raccoglievano le truppe e devastavano la valle Latina, depredando e bruciando fattorie e rubando percore e vacche. Risalita la valle lungo la via Latina, si radunavano sul Mons Algidus, che domina i Castelli Romani e oggi si chiama Maschio di Lariano, dove aspettavano i Vosci della costa e gli Equi e preparavano l’assalto a Roma.

Molto prima che i Romani li avvistassero o ne avessero notizia, arrivava in città un messaggero ernico che avvertiva del pericolo e, in questo modo, consentiva di arruolare l’esercito ed uscire a battaglia contro il nemico prima che arrivasse a minacciare la città.

Livius non ci dice quale strada percorresse il messaggero. Non certo la via Latina, che passava per il monte Algidus, dove imperversavano i Volsci. Ci doveva essere, dunque, un altro cammino per arrivare a Roma. Da Pelonga a Roma. È la strada che andiamo cercando.

Ricomponiamo l’apparato indiziario: tutti gli elementi di cui disponiamo puntano nella medesima direzione. A Pelonga ci doveva stare una strada con fondo artificiale. Un archeologo di polso scriverebbe che l’orizzonte materiale complessivo testimoniato dalla sopravvivenze osservabili in situ e dalle evidenze testuali disponibili rinvia alla necessaria presenza di un asse di comunicazione con la viabilità romana maggiore.

Il prof. Biddittu era arrivato alla medesima conclusione, sessanta anni, fa mediante l’analisi dei frammenti ceramici: aveva ipotizzato passasse di qui una via di comunicazione tra la valle Latina e la valle dell’Aniene già in età preistorica. Del prof. Biddittu ci possiamo fidare: nessuno sa leggere come lui il terreno ed il territorio.

Allora questa strada ci doveva stare ma io, cammina e cammina, non ci arrivavo. I piedi non bastavano. Con gli occhi dei piedi, non riuscivo a leggere sul terreno niente che facesse pensare ad una strada romana.

Bisognava procedere in un’altra maniera: muoversi, in modo analitico, da concetti generali a conclusioni particolari. Per cominciare: cosa sappiamo, così in astratto, delle strade di Roma? Intanto, molto meno di quel che ci piacerebbe. Sono state studiate assai poco perché è difficoltoso esporle nei musei, che si occupano di oggetti d’arte o comunque capaci di suscitare uno stupore e una meraviglia tali da cavarne il servizio al telegiornale e il pagamento del biglietto. Le strutture essenziali alla costituzione ed alla conservazione del bene comune, o res publica, ai musei pare non interessino. Dunque, non sono neppure il primo pensiero degli archeologi.

Le strade romane venivano realizzate tenendo fermo il più possibile alla linea retta. Dunque, sempre quando possibile, senza tornanti, curve e rigirii anche su pendii ripidi. Una strada dritta e, perciò, più breve, si costruisce e si percorre con meno tempo e meno spesa. I nostri padri erano camminatori formidabili. Provate a ripercorrere il tracciato della prima Appia da Terracina fino ad Itri. Siccome dovrete fare più di una sosta, permettetemi di consigliarvi, strada facendo, la lettura della quinta satira del primo libro dei sermones di Orazio, che racconta il viaggio dell’Appia da Roma a Brindisi, compiuto nel 37, in compagnia di Mecenate e, per un tratto, anche di Virgilio. Anche senza bisogno di camminare per pendii, ci si possono passare serate bellissime. Orazio era un omettino bassotto e paffutello. Non certo uno sportivo. E però, ha percorso a piedi, camminando da venti a trenta chilometri nostri ogni giorno, da una mansio, una osteria di strada, all’altra, tutti i quasi seicento chilometri dell’Appia da Roma a Brundisium.

Di passaggio: se facessimo risorgere l’Appia, se la rendessimo accessibile a chi ama andare a piedi, se riaprissimo locande di strada ad ogni tappa: potrebbe diventare uno dei cammini più affascinanti del mondo. Basta vedere quale fortuna sta conoscendo la sua gemella balcanica, la via Egnatia, che è rimasta pressoché intatta e vede calpestati i suoi basoli, ogni anno, da migliaia di appassionati, stupefatti e lieti viandanti.

Se leggi Orazio, vedi anche che un tempo le strade erano luoghi sociali: ogni persona che capitava di incontrare era un compagno di viaggio. Lungo le strade ci si conosceva, si parlava, si cantava, si pregava, ci si amava, si commerciava. Si vivevano esperienze di umanità intensa in condizione sensoriale non deprivata. Si condividevano pensieri, notizie, sentimenti, passioni. Ad ogni osteria, ci si imbatteva in personaggi caratteristici e si assaggiavano i cibi e i vini del posto: un tipo buffo, un contaballe, un ubriacone, un mercante, una bella fanciulla, un giovanotto di gradevole presenza, un uomo dalle mille esperienze, un formaggio, un pane, un frutto, un salume, un vino locale.

Poi, meno male che è arrivato il progresso e hanno inventato le automobili, così le strade sono diventate il luogo d’elezione d’una contesa di tutti contro tutti in cui ciascuno esprime il peggio di se stesso ed è sempre in condizione di odio e livore nei riguardi del mondo universo. Chi si ostina ad andare a piedi, rischia ogni giorno di venire spiaccicato. In compenso, le pagnottelle degli autogrill sono ugualmente squallide e tristi dovunque.

Vabbè: comunque le strade romane andavano dritte. Erano tracciate per essere percorse a piedi o a zampe. Se vedi una strada di montagna che gira e rigira per curve e tornanti infiniti, puoi stare sereno che non è stata realizzata asfaltando un tracciato romano precedente. Perciò, se hai perso una strada romana e la vuoi ritrovare, cerca linee rette.

Che le strade romane e gli acquedotti camminassero insieme l’abbiamo imparato da Frontinus. A Pelonga, però, non ci sono tracce di acquedotti romani ma solo opere diffuse di regimazione, accumulo e prelievo delle acque piovane e di falda.

Tutti sappiamo che la legge romana proibiva con fermezza la sepoltura dei defunti all’interno dell’abitato. L’unica eccezione si fece per Traianus, qui unus in urbe sepultus est. Ma era Traianus. I Romani non avevano molte certezze e neppure molta fiducia riguardo una vita successiva alla morte. Per continuare ad esistere almeno nella memoria dei vivi, per continuare a parlare ai vivi, perché il primo e più tremendo attributo della morte è la negazione di ogni possibilità di comunicazione: si facevano seppellire lungo le strade, il più vicino possibile ai luoghi di maggior passaggio e, specialmente, alle porte delle città. Preparavano la sepoltura e l’iscrizione funeraria quando erano ancora ben vivi con l’idea di lasciare una parola di congedo, un messaggio supremo e finale a chi, transitoriamente, non era ancora morto. Continuano a parlare anche con noi, destinatari non immaginati e non supposti e, in qualche maniera, abusivi e maldestri. Alcuni di questi epitaffi sono bellissimi per profondità d’ispirazione, nel rimpianto immedicabile per la vita perduta o, al contrario, nel sollievo del distacco, amaro e giocoso insieme, dall’inconveniente di essere nato.

Se vai in cerca d’una strada romana, allora, segui le tombe.

Un’altra caratteristica delle strade di Roma era la associazione, lungo il percorso e specialmente subito prima e dopo le porte delle città, con i luoghi di culto.

Chi uscisse da porta Capena e si ponesse per il cammino dell’Appia, salutava alla propria sinistra i tempi gemelli di Honos e Virtus, dei quali ogni bravo Romano portava con sé il numen, il senso della misteriosa, necessaria incombenza, quando si allontanava dalla città. Nei pressi della porta si trovava un tempio di Mars, dove veniva custodito lo scudo sacro che il dio aveva donato a Roma. Lì si riunì il senato dopo la disfatta di Canne: contro un nemico in armi si continua a combattere anche quando non ci sono più né soldati né risorse né armi. Il dio, onorato secondo i riti, non farà mancare il suo aiuto e la sua protezione. Non lontano c’era un tempio di Mercurius, frequentato soprattutto dai mercanti, che sono grandi viaggiatori. Chi entrava in città dopo un viaggio, sull’altro lato della strada poteva fermarsi all’ara della Fortuna Redux, l’altare del buon ritorno, ed offrire in ringraziamento un poco di vino o bruciare qualche grano di incenso.

Molte chiese e cappelle cristiane sono state edificate, dall’età di Costantino e dei suoi successori e, soprattutto, dal tempo di Teodosio in poi, con i materiali e nei luoghi di precedenti templi romani. Gli esempi sarebbero innumeri. Basta qui osservare che anche la chiesa di Santa Maria Maggiore ad Alatri è costruita nell’area e, probabilmente, con materiali di risulta, almeno in parte, d’un precedente tempio di Iupiter Optimus Maximus, come testimonia l’epigrafe murata capovolta nel primo dei pilastri che separano la navata centrale da quella sinistra.

Per ritrovare la strada che andiamo cercando, perciò, dobbiamo fare attenzione alle cappelle ed alle edicole rurali, particolarmente quando la loro presenza non è spiegata da una storia o da un racconto certi e non è chiara la loro necessità se riferita al territorio ed al popolamento.

Un incrocio di due o più strade in latino si chiama compitum. Ogni compitum, in città o pure in campagna, era un luogo di incontro e di riunione per chi abitava là intorno. Veniva consacrato al culto dei lares compitales, o lares viales, che proteggevano le piccole comunità dei vici, dei vicoli, e dei pagi, gli aggregati di abitazioni rurali, e chiunque passasse di lì. Come accadeva ancora qualche decennio fa, la rete delle edicole religiose diffuse consacrava ed orientava il territorio. Ancora ai tempi dei miei nonni, si camminava verso la cona, fino alla cona. Siamo arrivati fino alla cona. La cona della Madonna della Croce era meta di un pellegrinaggio annuale, nel corso del quale si ripeteva, partendo dalla soglia di casa, la formula:”Vattene via, falso nemico, perché nel giorno della Madonna della Croce ho detto mille volte Gesù, Giuseppe, Maria, Gesù, Giuseppe, Maria, Gesù, Giuseppe, Maria, Gesù, Giuseppe, Maria…”. E guai a chi non parlava forte e non si faceva sentire bene.

La barbarie che ci intossica è un mostro sempre gravido che dà alla luce molte generazioni di orrori. La dimenticanza e lo sradicamento sono tra i più atroci. Immemori delle tradizioni nostre, vagheggiamo la catarsi mediante il cammino zen, la meditazione kinhin e i santoni tibetani viaggianti. Mia nonna praticava l’arte dei cammini rituali di purificazione senza bisogno di santoni e di zen. La bastavano Gesù, Giuseppe e Maria.

Si chiamava compitum anche l’edicola o la cappelletta costruita nei pressi di ogni incrocio. Era destinata al culto dei Lares compitales, s’è detto, ma pure di altre divinità. Alcune edicole erano prediali: realizzate e mantenute a spese del proprietario di un praedium, di una fattoria vicina. Una volta l’anno, d’inverno, dopo i Saturnalia, e appena conclusi i riti sacri a Ianus: si celebravano i compitalia, le feste degli incroci. Tutte le famiglie che vivevano nei pressi delle cappelle di strada inviavano doni ai Lares compitales e si riunivano dove le strade si incontrano e si dividono per offrire il sacrificio d’un maiale, che veniva consumato in un banchetto sociale e, in parte, distribuito tra i vicini. La festa continuava, tornati tutti a casa, presso il focolare domestico. Secondo Catone, i compitalia erano l’unica festa religiosa che il vilicus era autorizzato a tenere quando fosse assente il proprietario:

Rem divinam nisi Conpitalibus in conpito aut in foco ne faciat.

Le giovani che andavano spose, prima di uscire dalla casa paterna per compiere la cerimonia solenne delle nozze, donavano una monetina di bronzo, un asse, che è un quarto di sesterzio, ai Lares compitales sotto la cui protezione avevano vissuto: l’obolo che si deve perché il passaggio dal numen di una divinità a quello di un’altra sia augurato e propiziato dai fati.

Un incrocio è il luogo della ambiguità e, perciò, della scelta; dunque, della disambiguazione necessaria. Perciò, oltre alle immagini dei Lares compitales, venivano poste nelle edicole di strada statuette o dipinti di Diana, la vergine trivia, la divinità inafferrabile e triforme della natura selvaggia ed indomita alla quale, raccontano, sono stati offerti in tempi remoti sacrifici umani: luna in cielo, cacciatrice insaziata e non asservita alle passioni della sessualità sulla terra, severa regina dei morti nell’Ade.

Nei Saturnalia di Macrobius, Diana esercita il suo potere ominoso su tutte le strade:

Dianae vero ut Triviae viarum omnium tribuunt potestatem.

Questo culto di Diana come Virgo Trivia, “Vergine delle biforcazioni”, ha una storia lunga e complicata. In origine, agli incroci si venerava Mània, la dea oscura della complessità e della follia; madre dei Lares, pretendeva sacrifici umani, che le venivano offerti ancora in età monarchica. Se ne parla in Macrobii Saturnalia I 7.34.

Per quel che interessa a noi: ad ogni incrocio di strada romana c’era una edicola sacra, dove venivano esposte immagini di divinità. Questi altari di strada sono stati sostituiti, nel passaggio dal mondo romano al latino-cristiano, da sacre edicole, o cappellette, o icone, o cone, come diciamo ancora con una felice sineddoche. Come si vede ancora bene al Trivio, che conserva il nome latino perché i Romani contavano in modo inclusivo e chiamavano trivium quel che, per noi, è un bivio, e in molti altri incroci del centro storico di Alatri.

Ai fini della nostra indagine, ogni cona, ogni cappella di campagna, ogni luogo di culto disperso per i campi: potrebbe rappresentare un indizio e segnalare un antico compitum, un incrocio romano precedente.

A questo punto, però: mi sono un poco perso d’animo perché la strada che non riuscivo a trovare invece di avvicinarsi pareva allontanarsi sempre di più. Siccome m’ero convinto che ci doveva stare per forza, ho richiamato me stesso all’ottimismo della volontà, nel pessimismo della ragione, che deve sostenere ogni viandante e: presa una bella mappa del glorioso Istituto Geografico Militare, ho cominciato ad evidenziare chiese e chiesette rurali, edicole e cappellette di campagna. In appresso, ho segnato tutti i rinvenimenti e le notizie di sepolture romane acquisite ufficialmente, diciamo così, agli studi e, con un colore diverso, quelle non ufficiali ma certe perché se ne parla in vecchi libri che, per il tempo che ci contende, sono scomparsi dall’orizzonte ermeneutico delle ricerche attuali. Se a me càpita di perdere una strada, agli studiosi può ben accadere di smarrire la cognizione di un’area sepolcrale antica. Della quale, insieme al resto del materiale indiziario, ci occuperemo, se vorrete, nella prossima puntata: dove forse si saprà se, alla fine, questa strada s’è trovata, oppure no.

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