Laudabatur enim hoc a maioribus,
et multi ante nos vitam istam agentes
praestruxerant aerumnosas vias,
per quas transire cogebamur
multiplicato labore et dolore
filiis Adam.
Aug. Conf. I ix,14
Hinc satis elucet maiorem habere vim
ad discenda ista liberam curiositatem
quam meticulosam necessitatem.
Aug. Conf. I xiv,23
1. Ceci e il latino
Luigi Ceci ha insegnato per dieci anni nei licei le lingue e le letterature di Grecia e di Roma; per molti anni ancora, ha retto l’incarico dell’insegnamento delle grammatiche greca e latina nella scuola di magistero annessa alla facoltà di lettere della sua università; sicché, conosceva molto bene il complesso sistema normativo che per antica consuetudine, ma non del tutto propriamente, chiamiamo “la grammatica latina”.
Riconosceva nella cultura di Roma le proprie radici. Era un eccellente autorista,1 un lettore accanito ed appassionato di scrittori latini.2 Percorrendo la vigna di quei testi (Plin. Sen. Nat. Hist. 17, 169: hoc est ut quinto quoque palo singulae iugo paginae includantur, dove pagina è il filare delle viti), gli capitava di cogliere un passo, una frase, un luogo specialmente significativi: sia che illustrassero questo o quel punto della riflessione sulla descrizione teorica del latino che lo accompagnò per tutta la vita, quasi filo rosso e laboratorio privilegiato della più generale meditazione sul linguaggio e sulla comunicazione, sia che gli valessero per illuminare e chiarire a se stesso i significati di un esistere e di un agire problematici sempre, tormentati spesso. Perché il frutto del lavoro non andasse perduto, di quei luoghi faceva copia, e li affidava alla pagina d’un quaderno, o d’un taccuino, o ad un foglio sciolto, o ad altra, minima càrtula che avesse tra mano.
Gran parte dei fasci di carte che ci ha lasciato è formata da questi appunti veloci, cursòri. Ben spesso, l’inchiostro finiva prima della necessità di scrivere, e allora schiacciava il pennino sulla pagina, sì che gli bastasse a tracciare le ultime lettere: pur incerte, sbiadite.
Tra tutti, amava specialmente Agostino, cui sempre ricorse nei momenti più dolorosi dell’esistenza, e proprio un luogo di Agostino volle come epigrafe della Morfologia del 1905.
Fu lettore di latino dagli interessi straordinariamente ampi: dai primissimi testi epigrafici alla latinità più tarda, fino agli scrittori dell’età di mezzo, nei quali sentiva una lingua ancora viva, calda d’umanità e di passione, che faceva carico al purismo umanistico di aver ucciso per sempre:
[…] perché il latino è una lingua che ha vissuto per secoli e secoli, e se è morto come lingua viva fu per gli umanisti che volevano solo il latino di Cicerone, mentre anche quello del Medio Evo era latino.3
Leggeva, ed esortava a leggere, ad alta voce, secondo la consuetudine antica ed ancora medievale:
Elementi extra-grammaticali (individuali) si aggrovigliano attorno al fattore grammaticale. Sono i movimenti della vita affettiva che accompagnano il pensiero. […] Un canone – forse il più importante – della nuova critica estetica sarà questo: leggete ad alta voce, rendete la sua vita alla frase, ridate l’anima alla morta lettera.4
Come lui, aveva insegnato a leggere cum murmure, “borbottando”, o pure recto tono, “ad alta voce”, con riguardo aluoghi e circostanze,già Ugo di S. Vittore,5 per restituire forza e vita al testo mediante il rinnovamento, diceva Ceci, del “legame vociale”, in modo che la manducatio renda il testo carne e sangue del lettore e, così nutrito, egli conquisti la sapientia, che è (sapio) la condizione della vita saporita.6
Che differenza fra la lingua parlata e il libro! Il libro è una mummia, la lingua parlata è la vita perché è l’immagine auditiva in prevalenza su la visiva, della lingua letteraria; e non solo, perché c’entrano anche gli altri sensi. Il linguaggio non è un monologo, ma un dialogo. Dunque c’è una più viva rappresentazione.7
Ceci ebbe sempre presenti le complesse e difficili questioni connesse con l’insegnamento delle lingue classiche, che confrontò costantemente con la pietra di paragone degli studi glottologici che andava svolgendo, e presto di quell’insegnamento chiarì a se stesso le aporie, le insufficienze, gli errori di metodo e di fatto: gli parve che poco potesse essere condiviso, molto andasse rifatto da capo.
Sperò di riuscire nell’opera della fondazione d’una nuova e migliore scuola di latino. Per una varia, complessa e maligna serie di ragioni e di vicende, le sue conclusioni, purtroppo, sono rimaste pressoché ignorate.
Sicché, la riconsiderazione del pensiero di Ceci, anche per il riguardo dell’insegnamento del latino nella scuola, e specialmente mentre l’insegnamento del latino sta conoscendo difficoltà tali da far temere che questa nostra sia l’ultima generazione ad aver conosciuto la lingua di Roma, ci può forse aiutare a comprendere meglio noi stessi, le difficoltà del nostro quotidiano operare e, magari, consentirci di intravvedere la possibilità di un futuro più luminoso.
2. Ceci e l’insegnamento del latino nella scuola
Alla scuola di latino, Ceci ha lasciato due testi: la Morfologia8 del 1905 e la Sintassi, della quale annunciò la pubblicazione nella primavera del 19059 e alla quale continuò lavorare fino agli ultimi giorni di vita.10 La morte gli impedì di far conoscere i risultati d’una ricerca durata quasi tre decenni che sono rimasti, manoscritti, tra le sue carte.11
Per riferirsi alle grammatiche ed alle pratiche in uso nelle scuole, Ceci sentiva il bisogno di definirle complessivamente “la tradizione grammaticale latina” o pure “il sistema grammaticale empirico”:12
[…] nelle scuole il fine ultimo è di poter leggere la lingua letteraria. Col sistema grammaticale empirico questo non s’ottiene.13
Assai poco, di quel sistema assiomatico, è mutato da allora nei manuali che vanno in mano ai nostri studenti ed nelle lezioni che vengono loro impartite. Codesta “tradizione grammaticale latina” ripete le definizioni e fa propri gli strumenti concettuali della filosofia greca, aristotelica prima e stoica poi soprattutto, che si occupavano del linguaggio come strumento e segmento necessario di più ampi e complessi sistemi dialettici, e non come mezzo generale della comunicazione.
Dai filosofi e dai grammatici greci mutuò metodo e criteri Prisciano di Cesarea, attivo tra il 491 e il 518 ca.: proprio il signore che Dante, per motivi suoi che gli studenti di latino pare intendano, e condividano, meglio dei dantisti, ha capofittato, insieme ad un paio di professori, all’inferno.
L’Institutio de arte grammatica di Prisciano è l’opera più vasta e sistematica che l’antichità ci abbia lasciato intorno alla lingua latina e per questo, senza eccezioni, rappresenta il capostipite di tutte le grammatiche scolastiche successive le quali, a loro volta, ne rielaborano, ma non mutano, la struttura di complesso sistema logico-formale e normativo.14
Il dominio del grammaticalismo si è imposto definitivamente con la grammatica “logica” di Port-Royal (1660), un manuale prescrittivo e paradigmatico secondo le suggestioni del logicismo e del matematismo di Cartesio. Con la grammatica generale di Port-Royal, il libro di grammatica ha sconfitto la parola viva, detta e scritta; per il mezzo di quella grammatica, la tradizione dogmatica, che guarda ad Aristotele, percorrendo all’indietro il corso della storia, ha cancellato, negli studi di latino almeno, la lezione di Galileo.15
Dunque:
1. le grammatiche latine in uso nella scuola riproducono con impressionante continuità criteri e metodi della Institutio di Prisciano;
2. Le grammatiche latine in uso nella scuola sono l’estrema roccaforte, l’ultimo saldo e forte arnese d’un aristotelismo dogmatico e formalistico che non solo ha resistito alla rivoluzione galileiana, ma è rimasto sordo alle suggestioni ed alle conquiste della linguistica dell’Ottocento e del Novecento.16
Questa tradizione grammaticale è stata, ed è ancora, capace di straordinarie resistenze e sbalorditive fedeltà. Tiene fermo alle proprie definizioni anche quando l’evidenza dei fatti, l’uso vivo e concreto, la lettura degli autori e perfino la logica comune indurrebbero a stabilire diversamente.
3. Alcuni casi “di scuola”.
Se chiedi ad un Simplicio, che a quella tradizione appartenga, la definizione dell’ablativo assoluto, ti risponde come niente fosse che “è sciolto da ogni legame grammaticale rispetto alla proposizione in cui si trova” o, in alternativa, “rispetto alla proposizione principale”, e ancor peggio, perché se si dà un rapporto da “principale” a “dipendente” allora un rapporto, evidentemente, c’è: e chi ne dubiterebbe, del resto? I docenti “più severi e preparati” arrivano a dire “ sciolto da ogni legame logico e grammaticale”. Che entrambe le definizioni non abbiano alcun senso è evidente a chiunque, e tuttavia questa formula è stata ed è tramandata per li rami delle generazioni, e i secoli dei secoli.17
Proviamo a non dare ascolto alle ragioni della logica, e perfino del latino, e facciamo pure finta di non sapere che textum, da texere, significa “tessuto”, “intreccio”, e che da texere c’è anche il deverbale textus (già nel senso di “intreccio delle parole” in Quint. Inst. 9, 4, 13), e allora non si vede come possa accadere che quel che è intrecciato non sia parte dell’intreccio; consideriamo, semplicemente, questi luoghi di Cicerone, e solo per qualche esempio:
Cato Maior 42: Hic Tito fratre suo censore […] elapsus est.
Brutus 281: Qui […] invitis suis civibus nactus est imperium.
Ad Att. X, 4, 4: Quis potest deserta per se patria beatus esse.
Phil. II, 107: Qua re tibi nuntiata, […] concidisti.
Pro Sulla 26: Ego tantis a me beneficiis in repubblica positis si […] postularem […].
Per riscontro, prendiamo in mano anche il buon Nepote:
Hann. 5, 2: Quo repentino obiecto visu tantum terrorem iniecit.
Con il che, come vede chiunque, andrebbe completamente rifatta la categoria grammaticale; e invece, per secolare consuetudine, si preferisce far finta di niente, chiudere i libri di Cicerone, e di tutti i latini, e tirare avanti a colpi di grammatica “pretendendo dagli studenti la definizione esatta”: perché, in fondo, così è molto più semplice. Almeno, per chi studente non è.
Ancora: Prisciano, probabilmente per fraintendimento dei propri modelli greci, male intese l’etichetta αιτιατική πτωσις della grammatica greca che aveva preso a modello sicché, supponendo αιτία in senso giudiziario, e non eziologico come ovvio, e necessario, fece un casus accusativus dove avrebbe dovuto essere casus causativus o, meglio ancora, effectivus,perché, nei termini della rappresentazione grammaticalista, il complemento diretto è trasformato dalla azione originata dal verbo transitivo: ebbene, anche se non ha alcun senso, diciamo ed insegnamo a dire da quindici secoli “accusativo”.
L’anomalia apparente di domi, Romae ecc. fu risolta da Prisciano nel senso del genitivo (II 66) con la eccezione di vesperi e ruri, che sarebbero viceversa dativi (II 64). Due comparatisti, Bopp (1816) e Rosen (1826), hanno mostrato che l’antico latino aveva, come il sanscrito, otto casi; tra questi, il locativo (continuato in tanti e tanti toponimi italiani: Firenze, Chiusi, Assisi, Alatri, Rimini…), che al singolare aveva desinenza in –i per tutte le declinazioni.18
Per la tendenza alla semplificazione del sistema della flessione propria del latino e di tutte le lingue sorelle, il numero dei casi si è andato riducendo fino ai sei della età storica (ed è scomparso del tutto negli esiti contemporanei); di modo che, l’antico locativo è stato sostituito dall’ablativo con in (Ceci diceva che la preposizione è la morte dei casi), tranne per i toponimi ad alta frequenza e disponibilità, che sono rimasti come forme fossili ad alta disponibilità e frequenza d’una fase precedente perché la gente era abituata a dire a quel modo e così ha continuato a dire anche quando il locativo non si usava più come una volta:
”Dove sta Gaio, di grazia?”
“In casa sua di città, domi, o nel podere, in campagna, a lavorar la terra da bravo concittadino di Cincinnato, ruri, o sottoterra, humi: e parce sepulto.”
Dopo due secoli quasi dai libri di Bopp e Rosen, la tradizione grammaticale si tiene stretta a Prisciano e non cede d’un passo. Ad accettare l’idea di forma fossile, o forma relitta, proprio non ce la fa: di genitivo trattasi, e non si discute; al massimo, è disposta a concedere il locativo con la lineetta: genitivo-locativo, appunto. Mah…19
C’è di peggio: la sconsiderata brama di sistematicità puntigliosa della quale la tradizione grammaticale si nutre è giunta a distinguere, tra gli appartenti alla categoria del “genitivo-locativo”, i nomi di città da quelli di piccole isole: tanto per complicarsi la vita, e soprattutto per complicarla agli studenti, ma senza fermarsi neppure un attimo a riflettere che, al limite, nelle piccole isole ci sta una città sola, altrimenti non sono piccole, e la città si chiama come l’isola, e dunque, eventualmente, basterebbe dire nomi di città: difatti, Ceci scrive proprio così. Ma vuoi mettere la suggestione d’una formula complessa ben scandita davanti alla classe? Più il giro di frase è convoluto, ed ostico, meglio è. E si capisce: se fai lo studente e chiedi di essere ammesso agli arcana status, devi pagare pedaggio.
Ancora: la grammatica di Prisciano conteneva liste di eccezioni ed anomalie. Nessuno può incasellare tutta una lingua dentro le scatole di rigidi schemi geometrici, ma sono gli schemi che non vanno bene, non la lingua, che è, diceva Ceci, organismo, non sistema matematico o meccanismo, e come ogni organismo mutevole, cioè storicamente determinato. Ora, tutti voi che leggete avete trascorso, o state trascorrendo, o si suppone che abbiate trascorso, o trascorriate, una parte non esigua del tempo della vostra giovinezza ad imparare liste di eccezioni.
Ebbene, questa morfologia e sintassi latina di Ceci è l’unico manuale per la scuola di latino che non faccia mai ricorso al comodo, ingombrante e stupido espediente della eccezione: se la lingua è convenzione, nulla può in essa darsi d’eccezionale, perché non verrebbe compreso, e perciò sarebbe non-lingua.
Ceci ripeteva spesso, citando l’autorità di Ascoli:
“L’anomalia e l’eccezione – scriveva l’Ascoli nel “Politecnico” del 1867 – sono fantasmi del raziocinio; e veramente si riducono a problemi storici, che la scienza odierna viene rapidamente risolvendo per poi affrontare nuove serie di più ardui problemi, che scaturiscono dalle sue risoluzioni stesse”.20
Il guaio è che la tradizione grammaticale immagina il latino come i cieli del sistema tolemaico: immutabile, senza storia, sempre uguale a se stesso. Per lei, è fatica grossa riconoscere che il latino è una lingua come le altre, dispiegata nella diacronia e nella sincronia, disponibile alla libertà creativa di chi lo parla e lo scrive. È disposta, come Tolomeo con le comete, ad ammettere l’anomalia, l’eccezione, purché sia compresa all’interno d’un sistema concettuale perfettamente sferico che, perciò, non può conoscere storia e non può divenire; e però,
fare una lingua fissa vuol dire creare il pensiero morto.21
Difatti, a questa maniera il latino non lo si sa, non lo si insegna, non lo si impara. Ceci a questa tradizione rimproverava d’averlo ammazzato, il latino:
Il latino ha perduto omai ogni chance. Il colpo mortale gli è venuto dai signori puristi, dai ciceronianisti… senza clausula!22
Dalle cure lunghe, pazienti, affettuose spese intorno a questa Grammatica un solo premio io chieggio:- richiamare l’attenzione dei docenti italiani sul triste frutto dell’insegnamento grammaticale monco ed empirico, sul grave danno che alla scuola classica recò la così detta grammatica normale dell’uso ciceroniano.23
La situazione attuale è, purtroppo, ancora peggiore di quanto già fosse ai tempi di Ceci. L’insegnamento della grammatica latina è una landa desolata che nessuno presidia. Gli studiosi professionisti se ne tengono lontani con ogni cura perché hanno di meglio da fare e temono di dare forte del capo, ove ci mettessero piede, in qualche roccione specialmente spigoloso e più tignoso del solito. Sicché, vi soffiano i gelidi venti e impazzano le procelle rovinose delle politiche commerciali delle case editrici le quali, per le opere di volenterosi, e interessati, “facitori di grammatiche”, come li chiamava Ceci (e già in Aug. Conf. I xiii, 22: non clament adversus me venditores grammaticae vel emptores), ne cavano minacciosissimi arnesi di cinque, sei tomi, oltre si capisce agli eserciziari, ai materiali di corredo, ai ciddiròm dei quali proprio non si può fare a meno (e che nessuno però adopera): a venti euro per tomo; senza trascurare, s’intende, l’indispensabile libro delle versioni.24
Codesti manuali, più merci che libri, o libri soltanto perché sono stampati, ed hanno pagine e copertina, vengono compilati sulla base delle grammatiche precedenti, ed appartengono tutti a quella tradizione grammaticalista cui Ceci imputava la reponsabilità di aver ammazzato la scuola di latino ed il latino. Si distinguono tra loro più per la necessità della specificazione commerciale che per ragioni sostanziali, e vengono progettati da “esperti di marketing” soprattutto perché “piacciano” ai professori che li debbono adottare. Così, hai le grammatiche che “ambiscono alla completezza” ed elencano diciotto modi diversi per “esprimere la proposizione finale”, compreso il participio presente: i redattori pensano alle strutture del tipo Et studiose audiebam disputantem in populo, non intentione qua debui, sed quasi explorans eius facundiam (Aug. Conf. V xiii, 23), dove il participio presente (e si avverta intanto che il participio presente con valore verbale è una delle grandi innovazioni del latino cristiano), può essere assunto in senso finale, o circostanziale, e meglio circostanziale che finale. Ma, siccome è articolo di fede che il participio futuro sia usato soltanto nella perifrastica attiva, negli elenchi delle dipendenti finali di solito non ce lo trovi anche se, tutto al contrario, lo incontri così spesso con valore prospettico:
aut haec in nostros fabricatast machina muros
inspectura domos venturaque desuper urbi
(Verg. Aen. II, 46-47).
Oppure, ci sono le grammatiche che, dati i tempi, grami assai, “mirano ad essere agili ed essenziali”, e difatti si limitano a tre tomi soltanto, e perfino le grammatiche che recano sistematica comparazione del latino col sanscrito, e però continuano a raccontare la favolella del genitivo-locativo, e quelle simpatiche, coi fumetti; proprio per non farci mancar nulla, per via dei tentativi di fordizzazione dell’insegnamento che, ogni tanto, tornano di moda, esistono anche sorprendenti grammatiche latine secondo le ricette della didattica breve;25 ma tutte si corrispondono, dipendono le une dalle altre e riproducono la stessa tradizione e gli stessi errori d’impostazione e di fatto; e lasciamo stare gli errori materiali, di stampa, o trascurataggine, che è lo stesso, le indicazioni di quantità errate, i testi degli autori tagliati alla buona qua e là come capita levando via tutto il latino “non problematico”, o non pertinente all’eccezione ed all’esercitarsi, e dunque tale che non possa essere riferito ad un regola speciale, ad una particolarità, ad una anomalia: di modo che, càpita pure che i testi degli esercizi, sforbiciati all’ingrosso, diventino incomprensibili. Ma insomma, se fai di mestiere il redattore di manuali, e in un anno devi scrivere un corso di latino, uno di storia antica, una introduzione alla composizione scritta italiana e magari mettere insieme l’ennesimo, irrenunciabile, libro di versioni, allora vai di fretta e non puoi badare a certa minutaglia.
L’elenco degli idōla, o dei ritrovati logici (per modo di dire) e funzionali, oltre che del formulario retorico per mezzo del quale vanno proferiti, pazientemente congesto in quindici secoli di tradizione grammaticalista, riuscirebbe lungo assai, e magari a perderci ancora un poco di tempo uno ci si potrebbe anche divertire: a cominciare magari da “Il participio futuro attivo è laudaturum esse”, e guai a chi pensa e dice diversamente, anche se nove volte su dieci trovi scritto laudaturum e basta, sicché nove volte su dieci agli alunni tocca la chiosa:”Esse è evidentemente sottinteso”, e continuando con: “Il soggetto dell’oggettiva è sempre (questo “sempre” si intenda ribadito, a dire certezza di verità, da enfasi vocale forte, accompagnata dall’ actio che secondo circostanze riesca meglio opportuna) espresso”, salvo che a leggere magari anche solo Cesare chiunque vede che le robe non stanno esattamente così, ma pazienza, ad alter, che si userebbe sempre in serie di due membri, ed avrebbe indefettibilmente al dativo singolare alteri, e allora càpita che Cesare (Bell. Gall. VII, 25, 4 nel testo dato dal Klotz, invece “anomalizzato” altrove per scrupolo di conformità alla tradizione grammaticale) in altero successit tertius et tertio quartus faccia non uno ma due “errori di grammatica” in sei parole, ad uterque che si adopererebbe soltanto al singolare uterque consul mentre nel solo Bellum Iugurthinum lo leggi cinque volte al plurale – cfr. per un esempio 3 15: utrique ad urbem imperatores erant – ad idem che significa “medesimo”, mentre ipse significa “stesso”, mentre è palese a chiunque che in italiano stesso e medesimo hanno lo stesso, o il medesimo, valore: eccetera.
Ceci l’ha messa così: a scuola non puoi non insegnare la grammatica; ma questo insegnamento è puro mezzo per la lettura e l’intelligenza degli scrittori; quando è altro, per ossequio ad una tradizione grammaticale accettata acriticamente, o per amore di tranquillità ottusa e per pigra ricerca d’un rifugio comodo dai marosi del pensiero analitico, pesa e fa ingombro. Specialmente se la tradizione dell’insegnamento grammaticalista ha perso di vista da tempo sia lo scopo della intelligenza degli scrittori sia la lingua comune e la lingua della letteratura, e si è fabbricata un latino suo speciale, che serve soltanto alla costruzione di un riposante sistema logico-formale, il quale poggia sopra il congiunto disposto d’un formulario retorico assai poco sensato, ma di effetto sicuro quando lo si scandisca davanti agli alunni. Et nemo miseratur pueros vel illos vel utrosque (Aug. Conf. I ix, 15). Ascoltiamo ancora Ceci:
Quanto al materiale linguistico, una considerazione è necessaria. Le grammatiche che si avvicendano nelle nostre scuole mirano a circoscrivere la sintassi latina nell’àmbito dell’uso ciceroniano; ma nella morfologia esse accozzano, con mirabile inconseguenza, il materiale linguistico delle età più diverse – parole di uso plautino, forme di Apuleio, voci poetiche. L’uso di reor, ratus sum, reri è sopratutto poetico e postclassico. Cesare ignora codesto verbo, all’infuori del part. ratus (pro rata parte). Cicerone (de orat. 3, 38, 153) pone reri insieme con fari e nuncupare, tra le parole “quibus loco (= suo loco) positis grandior atque antiquior oratio saepe videri solet”; Quintiliano (8, 3, 26) scrive “reor tolerabile”. Non si può quindi mettere nella stessa linea reor e arbitror.26
Ma vi ha di peggio; ché bene spesso il ciceronianismo imperante insegna un Cicerone immaginario! L’uso degli scrittori e sopratutto l’uso di Cicerone ci apprende essere una strana esagerazione la ormai universale affermazione che il latino manchi di astratti, che il latino non adoperi l’astratto per il concreto, che il latino non usi il nome di paesi e di città per gli abitanti e per i cittadini. Giungono persino ad arzigogolare i signori grammatici sulla mentalità dei Romani – mentalità tutta rivolta alla vita pratica e non avvezza alle astrazioni! Ma Cicerone usa, a prescindere da ogni figura retorica, tre o quattro centinaia di sostantivi astratti con significazione concreta!!27
Agli alunni chiediamo di impegnarsi nella traduzione dei medesimi passi, da una grammatica all’altra, perché esiste anche una tradizione grammaticale dei testi da tradurre, dalle fanciulle che si recano nel bosco a raccoglier viole onde ornare gli altari delle dee, in appresso.
Si tende, ormai, a rinviare il più possibile il contatto dello studente con il latino “vero”. Sicché, ci sono “corsi di latino” in cui, per gran parte del primo volume, gli esercizi sono scritti in un latino geneticamente modificato che fa venire in mente, al massimo, una parodia del Baldus. È un latino pensato in italiano, e un poco truccato da latino alterando la giacitura delle parole nella proposizione. In compenso, è inzeppato dal maggior numero di “eccezioni” possibile. Quando, dopo cinque o sei mesi di “latino” così, gli studenti si trovano davanti ai testi di Cesare, è come se pigliassero una randellata nel capo: difatti, rimangono le mezz’ore a guardare basiti il vocabolario.
Ne risulta l’immagine d’un latino assai strambo, una lingua-Frankenstein, l’homunculus di una lingua humana, diceva Ceci, fatto tutto di “anomalie e particolarità”, più ritrovato di rivista d’enigmistica che strumento di comunicazione, e davvero ti domandi perché caspita uno lo deve studiare, un latino così, e se i Romani proprio non avessero niente di più intelligente da dirsi, dalla mattina alla sera, o per quale bizzarra ragione s’ostinassero ad adoperare, per comunicare tra di loro, un attrezzo così complicato che, per essere compreso, richiede di sciogliere intricate matasse di convolute analisi preliminari: morfologica, logica, del periodo: “necessariamente precedenti la successiva costruzione”.
Si parla d’analisi logica della lingua, come se la lingua fosse logica. La lingua è il deposito di tutte le manifestazioni dello spirito umano; la psiche è un complesso di intelletto, fantasia, sentimento, e tutto ciò si rispecchia nel linguaggio, e dire quindi che il linguaggio è un’espressione logica è cosa errata. Ma questa idea s’è perpetuata, perché l’indagine linguistica sorse in Grecia per opera de’ filosofi, Aristotele la considerò sotto quest’aspetto e noi l’abbiamo seguìto.[…] Però l’uomo, che apprende il linguaggio, non apprende pappagallescamente, poiché la lingua non s’impara ma si educa.28
Ma la lingua non è tutta questa; soltanto una lingua filosofica potrebbe essere interamente logica, ma la lingua è creazione popolare, e quando diciamo “logica” intendiamo attività psichiche, mentre la lingua non soltanto è pensiero, ma anche sentimento e volontà.29
Tutte le lingue storiche hanno delle grandi illogicità.30
Meno male che gli studenti, i quali sciocchi non sono, s’organizzano per tirare a campare in qualche maniera: che i passi da tradurre siano sempre gli stessi l’hanno capito da un pezzo e, con un poco di pratica, trafficando con i motori di ricerca, su Internet le versioni le trovano tutte: tradotte, e pure corrette da qualche professore.
Solo che in questi deserti della significazione e della comunicazione tanti ragazzi trascorrono, in una sorta d’inane rito di passaggio, gli anni più tormentosi di lor giovinezza: sbatacchiati qua e là tra un’eccezione, un’anomalia, una singolarità, un congiuntivo: naturalmente obliquo.
E così, tra sospiri, pianti e alti guai di affranti insegnanti, la tradizione grammaticalista sta celebrando, come Ceci aveva previsto, i riti funerari propri, e quelli della conoscenza della letteratura di Roma. In tante, troppe scuole il latino, ormai, lo si legge soltanto in traduzione, mentre gli studenti più bravi arrivano, rari nantes in gurgite vasto, dopo cinque anni di fatiche e di studio, a tradurre, che non significa intendere, venti righe di Seneca quando va bene.
4. La Morfologia
Nel 1905, Ceci pubblicò il primo volume, dedicato alla morfologia, d’un corso di grammatica latina per le scuole. La sede editoriale era assai poco usuale: la tipografia del Senato. Un libro, dunque, che deliberatamente si poneva al di fuori della tradizione scolastica anche per il riguardo dello stampatore.
L’intento di Ceci, chiaro ed esplicito quanto spaventevole per la mole di lavoro da svolgere, era di rifar da capo la tradizione grammaticale delle scuole ponendo a frutto l’imponente mole di materiali e di dati accumulati dagli studi glottologici d’Ottocento intorno alla fonologia ed alla morfologia soprattutto, oltre che le esperienze d’insegnamento e la viva sensibilità di lettore di testi latini che aveva maturato negli anni.
Il libro è aperto al dialogo, alla discussione, alla verifica, al miglioramento. Non afferma di contenere verità assolute e chiare ed evidenti tanto, da non necessitare di una dimostrazione o da non poter essere revocate in dubbio, né è costruito sull’entimema d’uso corrente, in forza del quale se è possibile citare in calce all’enunciato normativo due “esempi” d’autore, la “regola” s’intende vera senz’altro.
Che altri venga a far meglio di me, io desidero con tutta l’anima. Ma che il rinnovamento della scuola latina si debba compiere battendo la via da me percorsa, questo non negherà chi sia devoto alla scienza ed alla scuola.31
Questa morfologia di Ceci è un libro senza storia: nessuno l’ha mai adottato, nemmeno nel nostro istituto, che di Ceci ha sempre tenuto alto il ricordo, pochissimi l’hanno letto, non si trova da nessuna parte e non sta neppure nella biblioteca del dipartimento di filologia greca e latina della Sapienza; una delle copie personali di Ceci è conservata nella Biblioteca Alessandrina, e reca parte le correzioni ed aggiunte manoscritte che vi andò apponendo in vista d’una seconda edizione, che non c’è mai stata.32
Insomma, si tratta d’uno dei libri più rari e misteriosi della cultura italiana di primo Novecento. Non viene mai citato se non, malamente e malignamente, per imputare a Ceci la reponsabilità della formazione suppletivistica vis, roboris, robori.33
Ceci ha avuto il gran merito di sporcarsi, da par suo, le mani, diciamo così, con la redazione d’una grammatica latina che è il risultato di una lunga ed originale rimeditazione della descrizione teorica della lingua di Roma; la tradizione grammaticalista, con mirabile concordia, ha rifiutato il suo lavoro senza batter ciglio perché dal libro di Ceci essa è radicalmente revocata in dubbio, o negata di fatto.34
Perfino nel nostro istituto è capitato che, mentre gli insegnanti migliori, stati allievi di Ceci, spendessero lunghi anni nel tentativo di rielaborare il manoscritto della Sintassi nella direzione d’un testo banalmente normativo, la Morfologia non l’abbia mai studiata nessuno perché, diversamente, ne sarebbe rimasta qualche traccia nella pratica dell’insegnamento.
La Morfologia di Ceci, “poggiata sui fatti, non sulle dottrine”, si sostiene ad un robusto empirismo, e non innova radicalmente la tradizione grammaticalista della scuola classica. Ne corregge con grande fermezza molte delle aporie e degli errori di fatto, ma non la ridisegna da capo per evitare cambiamenti violenti di impostazione e di prospettive dello studio.
Ceci muove da un punto ben fermo:
L’insegnamento della grammatica latina è, innanzi tutto, preparazione alla lettura degli scrittori, non fine a se stesso.35
Sicché, se non si leggono distesamente gli scrittori, il latino sarebbe meglio non studiarlo. Lo studio della grammatica deve essere funzionale alla lettura: lettura, non traduzione. La traduzione è soltanto un esercizio strumentale, intermedio, preparatorio.
E allora: se un punto di grammatica non è utile per l’intelligenza degli autori che si leggono effettivamente, è ragionevole non pretendere sia anche appreso dagli studenti. Recita l’antico adagio che quel che non giova ingombra, e vale anche per il latino.
Poniamo un caso ben noto: afferma la tradizione grammaticale che il vocativo di deus sia deus: punto e basta. Come fosse un teorema, una verità rivelata della quale, per tutti gli anni del liceo, gli insegnanti interrogano con meravigliosa perseveranza alunni, i quali incontrano codesto deus una volta o due, al massimo, nell’esercizio sulle eccezioni della seconda declinazione: poi, mai più. Ceci scrive:
Deus ha il voc. sing. deus. Ma avverti che un voc. deus si trova soltanto negli scrittori cristiani. Tertulliano usa anche dee.36
Ceci conosce certamente l’ipotesi Wackernagel: il vocativo di deus non è mai usato nella età così detta “classica” perché i Romani, attentissimi a certe faccende, si rivolgevano sempre alla divinità col vocativo del nome proprio o, per meglio dire, dei nomi propri, dei quali si allestivano liste complesse ed accuratissime; entra nell’uso in età cristiana, quando Deus diventa nome proprio ed è, come in greco, formazione analogica dell’uso ebraico; sa che Tertulliano (adv. Marc. 1, 29: gratus esses, o dee haeretice, si esses) adopera dee come vocativo inesistente per una divinità che non c’è; gli sfugge invece Prudenzio, Hamart. 931: O Dee cunctiparens, animae dator, o Dee Christe!.
Ma siccome scrive per gli studenti soprattutto, non per “piacere agli insegnanti”, né per compiacere se stesso mediante l’esibizione delle proprie competenze, registra il fatto linguistico e lo determina storicamente, lasciando al docente di decidere se questo punto vada appreso adesso o soltanto se e quando, poniamo, si leggessero con gli alunni testi d’autori cristiani.
Nella Morfologia di Ceci la dottrina glottologica è accurata, puntuale; non ingombra, né confonde, ma è sempre presente:
Noi ci ispirammo al concetto scientifico, senza per questo dimenticare che la grammatica scolastica è scritta per gli scolari, non per i filologi. Il concetto scientifico deve’esser, diciamo così, nel sottosuolo; e tanto più nascosto quanto più profondo.37
Ceci continua, per un esempio ancora, ad adoperare l’etichetta “accusativo” perché sa che, diversamente, precederebbe tanto da non poter essere più riconosciuto e, probabilmente, compreso. Avverte tuttavia lo studente, dalle primissime pagine, pensando proprio a Prisciano:
Accusativus = causativus (ad rationem causae dictus). È il caso che indica l’effetto di un’azione, e perciò si direbbe meglio effectivus.38
Lo studente non viene distratto da una lunga discussione; Ceci enuncia il concetto e apre la possibilità della sua elaborazione, affidando al docente che ne avesse la forza e le competenze, e ne ravvisasse l’opportunità, la possibilità di una spiegazione di maggior dettaglio. L’etichetta grammaticale viene comunque ragionata e diviene, di assioma, lucido ed esplicabile concetto.
Questo di Ceci, per quel che ne so (e di grammatiche latine, purtroppo, per ragioni di mestiere, ne leggo un bel po’), rimane l’unico manuale che non utilizza mai l’etichetta “genitivo-locativo”, ma dice sempre e soltanto “locativo”:
Ad indicare lo stato in luogo si usa per i nomi propri di città questo caso, che la tradizione scolastica confuse col genitivo: es. Romae, in Roma.39
Locativo sing. – La seconda declinazione aveva il locativo in – ī (-iī nei sostantivi in –ium), che la tradizione scolastica confuse col genitivo.40
Nell’età preclassica si usava l’ablativo in –ī dei nomi di città per indicare lo stato in luogo: Carthaginī, in Cartagine, ma Carthagine, da Cartagine; Tiburī, in Tivoli, ma Tibure, da Tivoli.
Nell’età classica invece lo stesso ablativo in –e si usava tanto per esprimere lo stato in luogo, quanto il modo da luogo (Cartagine = in Cartagine e da Cartagine). Rimane peraltro anche negli scrittori classici qualche esempio di ablativo in –ī = locativo […]. E rimane d’uso universale rurī, in campagna, certo per influenza di domī, in casa.41
Forse, Ceci qui si complica un poco la vita senza motivo: si può anche supporre che la desinenza del locativo fosse sempre in –ĭ, sicchè per agglutinazione con la vocale del tema si ha Roma-ĭ > Romai (bisillabo) > Romae, e naturalmente Tarente-ĭ > Tarentī, e non c’è perciò alcuna necessità di spiegare Carthaginī come ablativo con valore locale e rurī come formazione analogica; è tuttavia anche vero che, per noi, rimane aperto il problema della quantità, lunga, in Carthaginī e nei temi in consonante in genere, che spieghiamo ricorrendo a nostra volta al criterio della formazione analogica. Interessa qui che questa di Ceci sia l’unica grammatica scolastica a porre in termini corretti la questione, ed a collocarsi fuori della tradizione che discende dalle Institutiones di Prisciano.
Alla tradizione grammaticale, insomma, Ceci muove obiezioni capitali. Tra gli idōla che la nostra scuola di latino ha più cari, la distinzione tra complemento d’agente e complemento di causa efficiente. Passando al crivello dei fatti le proposizione dogmatiche della grammatica tradizionale, Ceci protesta che:
Non è vero quello che tutte le grammatiche insegnano riguardo alla costruzione dei verbi passivi coi nomi di cose o di esseri inanimati. Persone ed animali sono, più spesso degli esseri inanimati, considerati come agenti; e quindi più spesso si ha l’ablativo con a, ab nei nomi di persone e di animali. Ma anche gli esseri inanimati possono esser considerati come agenti (ablativo con a o ab). È pur Cicerone che scrive:
Utilitatis species ab honestatis actoritate superata est (de off. 3, 30, 109).
Ab isdem (ventis) maritimi cursus deriguntur (de nat. Deor. 2, 53, 131).
Nequedum satis ab his novellis arboribus omnis hic locus opacatur (Leg. fr. 4).
A consiliis malitiae deseruntur (pro Cluent. 65, 183).
Quod efficitur ab ea causa (Top. 15, 60).
Omne tempus quod mihi ab amicorum negotiis datur (Div. In Q. Caec. 13, 41).
Id oneris ab horum adulescentium studiis imponitur (de orat. 1, 47, 207).
A ceteris oblectationibus deseror (ad Att. 4, 10, 1).
A beta et a malva deceptus sum (ad Fam. 7, 26, 2).
Le grammatiche delle nostre scuole fanno anche peggio. Con una concordia non umana negano alle povere bestie il diritto della preposizione a, ab. Ma Cicerone scrive:
clipeos a muribus esse derosos (de divin. 1, 44, 99);
ab aquila Tarquinio apicem impositum (de leg. 1, 1, 4);
superamur a bestiis (de Fin. 2, 34, 111);
nisi (corpora) a feris sint ante laniata (Tusc. 1, 45, 108);
pulli aluntur ab iis (gallinis) (de nat. deor. 2, 48, 124).
Ed è Giulio Cesare che scrive:
naves ab aestu relictae (Bell. Gall. 3, 13, 7).
quum aquilifer a viribus deficeretur (Bell. Civ. 3, 64, 3).42
Pagina dopo pagina, Ceci disegna l’immagine d’una lingua viva, che diviene e si modifica nel tempo, ben scandita sugli assi della variabilità sincronica e diacronica, in cui la comunicazione umana agisce secondo vettori relazionali di circolarità concausale, o pluricausale, talché ne risulta chiara la complessità irredimibile, ed irriducibile alla mera descrizione grammaticale, dell’organismo glottico, e se ne affina la sensibilità del lettore verso il testo perché veramente il latino non si impara, ma ad esso ci si educa, e si educano gli studenti con noi:
E non saria poeta, né grammatico
Che lo sapesse a ponto ben descrivere.43
Difatti,
col solo possesso di una somma più o meno grande di regole, non si riesce ad intendere né la eleganza di Cesare, né l’austerità di Sallustio, non la magniloquenza di Cicerone, non la profondità di Tacito.44
Questa grammatica va, ancor oggi, raccomandata alla lettura ed alla riflessione degli insegnanti, degli studenti e, posto che ve ne siano, dei lettori di latino. Rimane strumento prezioso per chi si dedichi a letture distese dei vecchi libri che appartengono alla cultura romano-cristiana. Troverà particolarmente interessanti le sezioni “semasiologiche”, o di storia del significato, riguardo i lemmi fondamentali della lingua.
Il manuale di Ceci contiene, è vero, alcuni errori di stampa, e un recensore di polso non farebbe fatica a trovarne uno perfino nell’indice degli argomenti. La tipografia del senato del regno, probabilmente, non era la sede editoriale più adatta per un libro così tecnico. Andrebbe, oggi, rivisto in più d’un punto, e Ceci stesso ne era ben consapevole. Tuttavia anche di lui si può ben dire:
Ma quando si pensi che tali uomini la rompeano contro tutte le tradizioni anteriori ed aprìano nuovi mondi non si può pretendere di ritrovare nelle loro opere la perfezione.45
Il lavoro di Ceci ha il grande merito di porre in modo corretto moltissime questioni, e di individuare un eccellente punto di equilibrio tra la descrizione sincronica e quella diacronica della lingua: pur precedendo nel tempo, continua a precorrere i manuali che gli studenti hanno per le mani ancor oggi.
È ben vero che la grammatica non è che uno strumento, ma gli strumenti non sono tutti uguali, e ce ne sono di buoni e di cattivi, di più o meno accurati. Soprattutto, ci sono strumenti più o meno efficaci. Che la nostra scuola di latino e le sue grammatiche normative riescano efficaci, dubito assai. A me pare che, intricati tra eccezioni, particolarità, anomalie da tenere a mente in modo sistemico gli studenti, in moltissimi, davvero troppi casi facciano fatica perfino ad apprendere un poco di latino comune e sinanche le tabelle della fondamentali delle flessioni.
Nella Morfologia di Ceci i fatti linguistici sono sempre determinati storicamente e, perciò, stilisticamente; l’apprendimento può, dunque, non avvenire in modo sistemico: gli studenti possono concentrarsi sulle questioni fondamentali, e metter da parte tediose ed incomprensibili liste di anomalie che un cervello serenamente opinante riesce ad assimilare solo a costo d’una dolorosa serie di atti di fede.
Quando si ponesse mano alla lettura di un particolare autore, la grammatica storica rimarrebbe disponibile per la dichiarazione del testo e per la coltivazione della sensibilità, anche attraverso la misurazione dello scarto che quello scrittore realizza rispetto alla norma,46 verso gli specifici elementi di lingua e di stile che lo caratterizzano: ma non per via di astrazione, e viceversa nel corpo vivo d’una sede altissima della umana significazione.
Se si tratta di un’indagine di lingua non bisogna continuare a fare quello che si è fatto, ma per esempio prendere il latino dalla prime origini all’ultime manifestazioni: l’indagine sarà più difficile ma s’arriverà a conclusioni positive, e solo allora si potrà dedurre quello che è caratteristica d’uno scrittore.
Il prendere la lingua d’uno scrittore e considerarla in sé e per sé è perfettamente animalesco.47
Già si viene ad ammettere che il linguaggio letterario sia toto corde diverso da quello vivo – perché si diceva: la glottologia studia la lingua viva, e la filologia la letteraria – mentre ciò non è vero, che è continuo il reciproco influsso: la corrente letteraria sta sopra come un ghiaccio, e sotto sta la corrente del linguaggio vivo; avanzano delle sgretolature e il materiale letterario penetra nel linguaggio vivo e viceversa.48
Mi pare in ciò consista il maggior insegnamento di Ceci, che in questo modo si imparerebbe forse meno “grammatica”, cioè formulario grammaticalista, ma più latino, e si leggerebbe e si intenderebbe quel che si legge molto di più.49
La grammatica normativa tradizionale ha avuto, per secoli, il significato ed il valore d’uno strumento della discriminazione sociale: chi avesse desiderato accedere alle professioni liberali, aveva da sottoporsi ad alcuni riti iniziatici il cui superamento certificava l’abilità di portare a termine, in modo esatto, i compiti assegnati dalla autorità.
Prima tra tutti, la disciplina dell’apprendimento, durissimo, d’un complesso quanto inesplicato, ed inesplicabile per natura sua, sistema logico-formale che aveva, tra l’altro, il pregio, diciamo così, di precludere, nei fatti, l’accesso agli scrittori latini non canonici e di azzerare, o quasi, la straordinaria capacità di significazione della letteratura di Roma.50
La scuola di latino ha prodotto molti avvocati e funzionari, naturalmente “alti”, che adoperavano le povere disiecta membra memoriali serbate dagli studi di liceo, in difetto di blasoni e di ritratti d’antenati, come l’antica aristocrazia aveva ostentato i propri simboli di stato: ma pochissimi lettori di latino. Tanto pochi che, paradossalmente, se ci domandassimo con quanti scrittori gli insegnanti di latino, che la tradizione della grammatica normativa ora rappresentano e continuano, abbiano familiarità, e quanto siano in grado di leggere il latino, e quanto ne abbiano letto, e leggano tuttavia, temo che la risposta sarebbe poco confortevole.
In una società che, Costituzione alla mano, desideriamo meno autoritaria e nella quale, magari, gli adulti sappiano essere un poco più autorevoli, è certo desiderabile che al dogma ed all’aporia, almeno nell’insegnamento, si sostituiscano il ragionamento ed il concetto, e soprattutto sia liberata e torni disponibile la capacità di significazione della letteratura, e della letteratura di Roma prima di tutte; specie per noi, che ne siamo eredi diretti.
E dunque: se adesso che, grazie a Dio, il latino non è più adoperato come arnese e crivello della discriminazione sociale, la quale si determina altrove, mettessimo un poco da parte le aporie ed i dogmi del grammaticalismo tradizionale magari proprio partendo dagli strumenti che Ceci ha reso disponibili e, cominciando a camminare per la strada che Ceci ci ha additato, tornassimo a occuparci di latino?
5. La varia vicenda del manoscritto della Sintassi
Quando, ottanta anni fa, Ceci morì, alla sorella Virginia, che non aveva il bene della lettura e della scrittura, rimase di lui un minacciosissimo monticello di carte, e altre ancora a quelle prime s’aggiunsero, in appresso, “trovate nella stanza del sig. Professore” a Roma e restituite ai parenti. Ceci, per una vita intera di studio, aveva abbozzato molti lavori che restano, per noi, testimonianza d’una vastità di interessi straordinaria, e si proponeva, raggiunta la pensione, di condurli al livello della pubblicazione.
Queste carte furono subito contese tra diversi scolari suoi, che arrivarono a disputarsele, fino alla lite in tribunale, “in vista d’una eventuale pubblicazione”.51
Erano tempi un bel po’ diversi dai nostri, e la grammatica latina era un luogo centrale della pedagogia e del conflitto sociale. Per un punto di grammatica ci si sfidava a duello: e senza scherzi. Tra i professori di liceo, la gerarchia veniva stabilita non dalla anzianità, o resistenza, in servizio ma, poniamo, dal saper rispondere o no alla domanda: “Perché potior, nella espressione potiri rerum, regge il genitivo e non l’ablativo, come di regola?”. La risposta giusta, di chi la sapeva, e se la sapeva “era bravo”, era la suppletivistica: “Si sottintende potiri summa rerum”.
Sicchè, un poco tutti attribuivano a quelle carte un valore immenso e, probabilmente, molto superiore a quello che Ceci stesso aveva ritenuto potessero avere.
Dopo un poco di carrucolamento avanti e indietro tra Alatri e Roma, tra una perizia e l’altra, tra un’udienza ed un rinvio, le carte di Ceci trovarono pace nel porto sereno d’un armadio del nostro istituto: un poco malconce, effettivamente. Mancano con ogni evidenza alcuni fascicoli della Sintassi: s’è perso tutto il nominativo, che doveva essere il primo della pila. Se altro sia andato perduto, non possiamo sapere. Nulla è rimasto dell’epistolario.
Due allievi di Ceci, Carlo Minnocci e Angelo Sacchetti Sassetti, confinato ad Alatri per motivi politici, e cioè per il merito d’una cocciuta e fermissima renitenza all’ossequio verso il fascismo, hanno lavorato su questi fogli per almeno quindici anni. Per prossimità di interessi e di competenze, oltre che per attribuzione di valore, la loro attenzione si soffermò, più che altrove, sulla sintassi latina.
Confortati dall’assenso autorevole di Nicola Festa, decisero di dare alle stampe il volume. Sacchetti Sassetti trascriveva il manoscritto di e Minnocci lo rielaborava con l’idea di mettere insieme un manuale che, in qualche modo, realizzasse un punto di equilibrio tra le esigenze della scuola di latino, apodittica e normativa, e la descrizione storica della lingua che Ceci aveva cercato di comporre.
Certo, però, non si trattava di un compito semplice. Intanto, il manoscritto di Ceci è formato soltanto dalle carte preparatorie d’un lavoro che, tra le mani, gli s’era accresciuto a dismisura, e del quale la sola sintassi dei casi possiamo considerare sia giunta a livello tale da poter essere stampata, mentre della sintassi del periodo ci sono soltanto i materiali preliminari.
Ceci adoperava carta, pennino e calamaio dove chiunque, oggi, sentirebbe il bisogno di un consorzio di ricercatori e d’un discreto corredo di strumenti elettronici solo per tenere ordinate le schede e gli appunti. Lavorava d’impeto: segnava una citazione, un luogo latino, un pensiero dove gli capitava e come gli venivano. Qualche volta, in mancanza di meglio, scriveva su un angolo di pagina, o in un margine qualsiasi, perfino di verbale d’esami, che poi ritagliava ed inseriva nella cartelletta opportuna con l’idea di sistemare e rielaborare in seguito tutti i materiali raccolti. Si affidava ad un sistema suo di rinvii e segni d’inserimento basato sulla parentesi quadra ripetuta. Si vede bene che, in qualche caso, neppure lui riusciva poi a capire dove aveva inteso inserire un appunto o una nota. Aveva una grafia terribile: gli capitava rileggendo, di non riuscire più a decifrare quel che aveva fermato un poco di tempo prima: allora, di lato, aggiungeva uno, due, tre iratissimi punti interrogativi: qua e là, pure con qualche furibondo esclamativo di corredo.
Le trascrizioni di Sacchetti Sassetti sono, in ogni caso, accuratissime e di agevole lettura. Peccato che, nel grosso fascio di carte della Sintassi come lo abbiamo ora, se ne trovino soltanto pochissimi fogli; ci avrà dedicato molto tempo e molte fatiche, e li avrà portati con sé quando, alla fine della guerra, tornò alla sua Rieti. Sicché, il lavoro andrebbe rifatto da capo.
Il peso che queste carte hanno avuto nell’insegnamento di latino del nostro istituto è stato modestissimo. Uno dei ricordi di scuola che mio padre aveva più nitido era di quando Minnocci, ormai preside, entrava in classe per rimbrottare un’insegnante: ”Badi, professoressa, che quella costruzione, da lei corretta come errata, è stata usata da più di un autore latino”. E certo: Minnocci s’era appena alzato dal tavolo su cui stava lavorando alle carte di Ceci.
Mi pare si possa dire, purtroppo, che queste interpunzioni pedagogiche, un poco estemporanee, rappresentino il massimo risultato che il lavoro di Ceci abbia, sino ad ora, conseguito.
Di tante fatiche che Minnocci e Sacchetti Sassetti dedicarono al manoscritto della Sintassi è, purtroppo, rimasto ben poco. Sarebbe stato bello se quelle trascrizioni avessero circolato, ed animato la discussione ed il confronto, e magari seminato qualche dubbio nel compatto sistema di certezze grammaticali che, con tanto orgoglio, nella nostra scuola abbiamo continuato, e continuiamo, ad insegnare; sarebbe stato bello se il richiamo di Ceci alla centralità irrinunciabile della lettura e ad una migliore intelligenza del testo latino avesse fecondato ed animato la pratica dell’insegnamento. Ma il desiderio del libro stampato, dell’oggetto concluso e definitivo, sferico ed in tutto perfetto, e la difficoltà del còmpito costrinsero i due curatori a posare la penna. Evidentemente, la scuola di latino tradizionale non era ancora in grado di revocare in dubbio se stessa.
Virginia, intanto, aveva manifestato, poco prima di morire, la volontà di lasciare tutti i beni ricevuti dal fratello al seminario vescovile di Alatri. Alla fine, ci si risolse per un saggio iudicium Salomonis, e venne consegnata al seminario quella che tutti consideravano la parte maggiore dell’eredità intellettuale di Ceci: i manoscritti del Latium vetus, della sintassi latina, della grammatica serbo-croata.
Al nostro liceo è rimasto un notevole fondo, costituito da un grosso fascio di carte e da numerose copie di ciascuno degli estratti di stampa delle pubblicazioni di Ceci. Tra altri materiali, va segnalato almeno il manoscritto del secondo volume delle Etimologie dei giureconsulti romani, del quale prima o poi qualcuno si dovrebbe occupare.
Cento anni dopo il termine che Ceci s’era assegnato per la pubblicazione del libro, l’abbiamo letto in quattro o cinque. Vediamo insieme se vale ancora la pena di occuparsene.
6. Le carte
Il manoscritto della Sintassi riposa placidamente nella biblioteca del seminario di Alatri. Si tratta di notevole involto, distinto in due fasci di fogli, ciascuno stretto con ogni diligenza mediante più giri di spago, ad evitare la fuga della minima cartula: un fascio per la sintassi dei casi, uno per la sintassi del periodo.
Al lettore che, allentati i lacci, vi soffermasse lo sguardo, subito risulterebbero evidenti quattro mani di scrittura: la perigliosissima di Luigi Ceci, l’arruffata di Angelo Ceci, il plagiario del Latium Vetus, che ha lasciato, benedetto uomo, qualche sbaglio marchiano anche lì, direttamente sui fogli del professore, la compostissima di Minnocci, la determinata e spigolosa di Sacchetti Sassetti. A noi, evidentemente, interessa la prima, e senza rimpianti rinunciamo alle altre tre.
Le carte di Ceci, in gran parte mezzi fogli protocollo lineati, o variate porzioni frazionarie di essi, ma pure il retro d’un modulo di verbale d’esami dell’allora regia Università di Roma, ed altri supporti scrittòri d’occasione, sono raccolte in fascicoli all’interno di fogli protocollo bianchi. Codeste cartellette qualche volta recano una intestazione autografa, qualche volta di mano di Minnocci, qualche volta nessuna intestazione. Sono, a loro volta, contenute all’interno di fogli protocollo lineati su cui si legge, per mano di Minnocci, una sorta di rifacimento o rielaborazione del manoscritto di Ceci.
Siccome Ceci numerava di rado i mezzi fogli protocollo su cui aveva l’abitudine di scrivere, non abbiamo alcuna idea di quale potesse essere, in molti fascicoli, l’ordinamento originale, che siamo costretti a ricostruire, ove volessimo leggere, con parecchia fatica, e qualche dubbio residuale. A rendere il lavoro d’un curatore ancora più improbo (che non significa improbabile), qualche volta d’un medesimo luogo Ceci ha lasciato più d’una redazione. Tuttavia, complessivamente, si tratta d’un manoscritto ben delineato almeno per il riguardo della sintassi dei casi: quanto, se non più, quello del Latium vetus. A chi volesse allestirne la stampa, assolto il compito della trascrizione, e del riscontro delle citazioni, possibilmente su edizioni che Ceci poteva avere tra le mani, e nelle quali però era accuratissimo, rimane la responsabilità di decidere, ove l’evidenza interna del testo non aiutasse, se collocare, poniamo, il dativo di possesso prima o dopo il dativo etico, e di scegliere tra una o un’altra formulazione d’un medesimo concetto.
Non si corre, comunque, il pericolo di travisare o di sconciare il pensiero dell’autore il quale, tuttavia, non ci ha mai autorizzato a leggere queste carte: del che, mentre le leggiamo, è bene rimaniamo consapevoli. Soprattutto perché vale veramente la pena.
7. La Sintassi
Il manoscritto della Sintassi, come ci è stato conservato, doveva essere già in uno stato molto avanzato nel 1905 se, pubblicando la Morfologia, Ceci prevedeva di stampare il volume successivo entro uno o due mesi. La gelida accoglienze che la Morfologia aveva ricevuto e, soprattutto, le questioni teoriche che, in se stesso, egli non aveva ancora risolto, lo indussero a rinviare l’uscita del libro. Non poteva sostenersi, come nella Morfologia, con l’imponente mole di studi e materiali che la glottologia d’Ottocento aveva sì raccolto, ma nel campo degli studi fonologici e morfologici soprattutto: nei lavori dei grandi comparatisti, la sintassi è questione assai poco determinata e del tutto indiziaria. Aveva disponibile soprattutto la Historisches Syntax der lateinischen Sprache di A. Dräger (Liepzig, 1878), che certamente conosceva, e la Geschichte der Sprachwissenschaften bei dem Griechen und Römern, di H. Steinthal (Berlin, 1890-1891), cui si riferisce in uno degli appunti di lavoro del manoscritto, e poco altro, ma molto rimaneva da investigare e da chiarire:
Un campo, per altro, quasi del tutto inesplorato per lo innanzi, ha cominciato a percorrere la glottologia negli ultimi anni. Io accenno alla sintassi condotta col metodo fecondo della comparazione, col criterio storico voluto dalla critica moderna. […] Il perché della difficoltà degli studi sintattici è evidente. La sintassi dipende in gran parte dalla teoria delle forme; e prima che queste non fossero ampiamente dichiarate, uno studio scientifico dei fatti sintattici non era possibile. Ed aggiungete che la sintassi deve studiare la parte formale della parola, non la parte materiale che è soggetto della lessicografia. Non le basta, com’altri ben disse, l’esame della parola isolata, della λέξις, per usare la parola greca, ma vuol fare la storia, vuol trovare le cause delle funzioni della parola nel discorso, nel λόγος. Indi la sintassi dev’essere anzi tutto storica e più storica che comparativa. Giacché alla sintassi importa di più raccogliere e mettere in luce ciò che vi sia di più particolare e di più diverso in ciascuna delle lingue sorelle, anziché ciò che esse abbiano in comune fra loro, quantunque al sistema comune delle forme debba assorgere per trovare le prime cause e ragioni del peculiare sistema sintattico al quale esso dette origine.52
Molto al di là dell’ambito e degli intenti propri del volume per la scuola, al quale continuava a lavorare, Ceci continuò ad interrogarsi a lungo sulla opportunità, e la necessità, della distinzione tra sintassi e morfologia, sulla autonomia della sintassi rispetto al lessico e sui rapporti tra sintassi e pensiero e tra sintassi e stile, e cercò di chiarire a se stesso dove potessero essere tracciate le linee di demarcazione:
La parola va indagata nel discorso, poiché noi parliamo per proposizioni, perché la minima rappresentazione è data dalla proposizione. […] Il discorso è una rappresentazione complessa, e perciò indagando la parola come pensiero ci dobbiamo elevare non all’idea fondamentale, ma al suo ufficio nel discorso: ecco come la morfologia è contesta con la sintassi. […] Per esempio per le lingue indoeuropee la parola è una specie di composto; è scritta come un’unità dal parlante, ma la nostra idea è complessa; e in oratoris, per esempio, non c’è solo l’azione, ma anche una relazione”.53
Sollecitato dalle questioni poste dall’Estetica di Croce, Ceci rifletteva sulla relazione, nell’opera letteraria, tra sintassi e stile individuale, fino a risolversi ad accettare la possibilità della risoluzione della sintassi nello stile:
L’azione dello spirito può arrestare le leggi meccaniche per la ragione già detta, che chiunque parla mira a conservare la piena chiarezza e intelligibilità. Questa azione si fa meno sentire nella fonologia, e più nella morfologia, e cresce là dove i rapporti ideologici sono più complessi, e cioè nella sintassi: gli scrittori, infatti, si differenziano specialmente in questa parte: nello stile.54
D’altra parte, fermo nella posizione che il latino non vada considerato soltanto sotto la specie della lingua letteraria, cercava di definire le relazioni tra sintassi e cultura nel senso più ampio di visione del mondo, e giungeva a prefigurare la risoluzione della filologia, della glottologia e delle scienze antichistiche in generale in una nuova scienza della cultura antica:
Quando faremo la sintassi storica vedranno come filologia e glottologia non sieno per nulla affatto scindibili; ed ecco quindi un nuovo orizzonte: l’unità del sapere. […] La vita della lingua è intimamente collegata con la vita del pensiero e la storia del popolo, ed allora quindi, si tratta di fare dell’alta linguistica, bisogna che tutta la storia della lingua sia indagata con la vita sociale e storica del popolo, ed allora ne viene l’unità del sapere determinata e non esisterà più il frazionamento d’oggi, ma vi sarà una cattedra di cultura antica.55
Rispetto a questo vario, e complesso, orizzonte epistemologico ed a questo poderoso piano di lavoro in nuce, il manoscritto della sintassi è poco più che un colpo di sonda per la prima verifica della consistenza e della tenuta delle categorie della tradizione grammaticale; riguardo la quale, un punto era già chiaro: che confondeva la sintassi latina con la ciceroniana, e neppure di tutto Cicerone, e in più d’un punto d’un Cicerone tutto di fantasia. Sicché, il lavoro di Ceci combatte una battaglia di retroguardia: serve a scompaginare l’esistente e ad accumulare i materiali necessari a definire prospettive nuove e diverse, molte delle quali erano ancora (e, in certi casi, sono tuttavia) da chiarire dal punto di vista teorico, e da fare da quello, diciamo così, pratico.
Il lavoro di Ceci è vivo perché vige tuttavia la tradizione grammaticale della quale egli ha indagato e posto in luce, la luce dei concreti e positivi fatti linguistici, le inconsistenze. Non apre orizzonti radicalmente nuovi, e tuttavia è ancora necessario fare in modo sia letto e conosciuto perché, nella pratica dell’insegnamento, questa sezione della grammatica è, perfino più della morfologia, logicistica, aporetica ed assiomatica.
Ceci si è proposto di dare alla scuola una sintassi che fosse di tutto il latino, e non solo delle opere oratorie e filosofiche di Cicerone: dalla lingua di Plauto, paradigma del latino popolare e parlato, a quella letteraria d’età repubblicana ed imperiale, qui robustamente distinguendo tra l’indirizzo anomalista e l’analogismo di gusto cesariano ed ulteriormente dettagliando, all’interno dello stesso Cicerone, tra epistolario, e prime orazioni, ed opere di maggior impegno stilistico, fino ai caratteri specifici della lingua poetica, ed ai giuristi tardi.
Diversamente che nella Morfologia, il latino d’età cristiana non è oggetto d’analisi particolare, ma nei testi cristiani la sintassi ha conservato le forme classiche, salvo isolati, e pur ragguardevoli semitismi (il genitivo di qualità con funzione attributiva, il genitivo elativo, l’ablativo con in per la funzione strumentale), che Ceci non prende in considerazione per i limiti ed i destinatari, probabilmente, che si è assegnato.56
Se si pone mente agli anni in cui questa sintassi fu scritta, appare sorprendente il ricorso sistematico a strumenti di analisi quantitativa e frequenziale.57 Posto che il criterio determinante per l’accertamento della norma linguistica è la concreta e materiale prevalenza nell’uso, è necessario che una scrupolosa ricognizione computazionale delle occorrenze sia posta preliminare ad ogni definizione successiva. Con questi strumenti, e certo giovandosi dei materiali raccolti da Dräger, ma pure mediante analisi originali,58 (57) capitolo dopo capitolo Ceci si impegna in un lavoro di attento, puntuale, appassionato riscontro delle categorie della sintassi tradizionale, con risultati, in qualche caso, sorprendenti per i suoi tempi e per noi.
Restituiamo, allora, la parola a Ceci ed esaminiamo con lui un luogo esemplare: la casella grammaticale del dativo di possesso.
Ceci enuncia la norma tradizionale e inizia a stritolarla:
A nome della buona prosa latina, si è dato il bando al verbo habere, quando occorra significare il possesso. Patri domus est, mihi libri sunt, son queste le costruzioni che si raccomandano nelle nostre grammatiche.
Pater domum habet, agrum habeo paion volgari ai nostri ciceroniani. Le grammatiche insegnano: domus mihi est, non domum habeo; mihi libri sunt, non libros habeo. Si è dato il bando al verbo habere quando occorra esprimere il possesso. Patri domus est, non pater domum habet; mihi libri sunt, non libros habeo. Ora esaminiamo il bel capo! Il dativo possessivo con esse è usato in ben 239 luoghi da Cicerone. Lo credereste? In solo 4 luoghi (1,7% di tutti gli esempi) Cicerone si vale di questa costruzione quando la cosa posseduta è un nome concreto.
Poi, la seppellisce sotto l’evidenza del latino vivo e concreto:
Il dativo possessivo con esse è usato in Cicerone 239 volte. Ma in 212 volte la cosa posseduta è rappresentata da un astratto; 12 volte da un concreto collettivo; 4 volte da un concreto individuo (1,7% di tutti gli esempi), 4 volte da una persona (1,7% di tutti gli esempi).
E, ulteriormente, dettaglia:
Codesto costrutto ricorre in Cicerone 239 volte. Ma in 212 luoghi la cosa posseduta è rappresentata da un astratto: potestas (25 volte), locus (59 volte, di cui 53 in senso metaforico = fieri potest), causa (33 volte), otium (3 volte), tempus (1 volta), aditus (7 volte), reditus (4 volte), facultas (4 volte) ecc.; in 12 luoghi da concreti collettivi (come pecunia, opes). Solo 4 volte si ha il concreto individuale (come domus, caput ecc.), e solo 4 volte un nome di persona (come pater, filius). Altri astratti in Cicerone: honos (2 volte), ops, ornamentum, delectatio, voluptas, fructus, vita (2 volte), occasus, exstinctio, quies, fons (metaforico), partitio, finis, ius (3 volte), commercium (2 volte), lex (3 volte), mos (2 volte), modus (2 volte).
Dunque, è possibile una prima ricognizione del territorio:
Cicerone quindi non dice liber mihi est = ho un libro, ma librum habeo. Non dice amici mihi sunt, ma amicorum copia mihi est.
Poi, ancora nell’ambito dell’uso ciceroniano, precisa:
Cicerone ferma l’uso puro, classico con habeo.
Cicerone l’usa negli astratti perché non si tratta di un vero possesso.
La metà dei 27 luoghi con nomi concreti si ha nelle lettere e nella Oratio pro Quinctio.
Inoltre, ricorrono tre formole stereotipe che, prese insieme, danno la metà (49%) degli esempi del dativo possessivo:
- locus mihi est (59 volte, 6 in senso proprio, le altre volte in senso metaforico).
- potestas mihi est (25 volte).
- causa mihi est (33 volte).
In totale, 117 luoghi.
Nomi di condizioni o azioni dell’animo in Cicerone 16 volte: silentium, sanitas, suaviloquens iucunditas, quies vitae, religio, corruptela ac demutatio morum, nihil mali, nihil beatius, nihil certi, tantum offensionis, sensus (2 volte), acerbitas, quid animi, consilium.
Nomi di actiones in 16 esempi: actio, contentio, consolatio, solacium, occupatio (4 volte), odium, respectus, spes (3 volte), studium.
E conclude:
Ma Cicerone non usa il dativo con esse per significare il possesso di beni materiali. Cicerone usa habeo.
Poi, ripete la misurazione con i testi di Plauto:
Plauto, che ha 315 volte la costruzione di esse col dativo, ha 187 volte il nome astratto, ma 36 volte il concreto collettivo (divitiae, argentum, thesaurus, victus), 42 volte i nomi di persona (pater, parentes, filius, soror, amica, ancilla, servus, discipulus) e 38 volte i concreti individuali (aedes, cera = tabella cerata, domus, machaera, montes, pons, nummi, digiti, caput, lingua ecc). Quindi liber mihi est, amici mihi sunt è costruzione preferita in Plauto.
Comincia a delineare un orizzonte e incrocia i dati:
Con mihi est:
Si possiede la persona: in Plauto, 42 luoghi (pater, parentes, filius, soror, amica, hospes, servus, ancilla, discipulus). In Cicerone 4 luoghi; inoltre, lo unisce 5 volte coi nomi collettivi copia e inopia.
Si possiede la persona e la cosa concreta: in Plauto, 2 luoghi (liberi e divitiae, patria e parentes). In Cicerone, 2 luoghi.
Si possiedono cose concrete ed individue: in Plauto, 36 luoghi (aedis, cera nel senso di tabella cerata, domus, machaera, montes, pons, nummi, digiti, caput, lingua ecc.). In Cicerone, 4 luoghi.
Si possiedono concreti collettivi indicanti soprattutto “pecunia” ed “opes”: in Plauto 41 luoghi (divitiae, argentum, thensaurus, victus). In Cicerone, 12 luoghi.
Quindi, definisce un criterio:
Dunque la locuzione res est mihi è del linguaggio volgare (frequentissima in Plauto) e del discorso familiare, tanto che in Cicerone la metà degli esempi con nomi di persona, concreti individui e concreti collettivi si ha nelle lettere e nella prima orazione Pro Quinctio. Le tre formule stereotipe locus, potestas, causa mihi est danno la metà degli esempi.
E lo riscontra nei testi di Cesare e Nepote con un’ampia ricognizione:
Esse col dativo in Cesare, Bell. Gall. 1, 11, 5: sibi praeter agri solum nihil esse reliqui; Bell. Gall. 6, 13, 2: Nobilibus in hos eadem omnia sunt iura quae dominis in servos; Bell. Gall. 2, 6, 3: in muro consistendi potestas erat nulli; Bell. Gall. 7, 37, 3: locum consistendi Romanis in Gallia non fore; Bell. Gall. [7,] 5, 5: quibus id consilii fuisse cognoverint; Bell. Gall. [7,] 48, 4: Erat Romanis nec loco nec numero aequa contentio; Bell. Gall. [7,] 77, 8: Quid enim… propinquis consanguineisque nostris animi fore existimatis…?; Bell. Gall. 2, 15, 4: nullum esse aditum ad eos mercatoribus e Bell. Gall. [2,] 16, 5: propter paludes exercitui aditus non esset; similmente Bell. Gall. 4, 2, 1: Mercatoribus est aditus e Bell. Gall. 5, 27, 4: Civitati porro hanc fuisse belli causam; Nep., Lys. 1, 4: nam hanc causam… sibi esse belli; Nep., Dion 2, 5: ne agendi esset Dioni potestas e 8, 5: nihil… periculi fore Dioni.
Poi, considera alcune locuzioni particolari:
Habere aliquid cum aliquo in Cesare: Bell. Gall. 1, 44, 9 (contentiones); Bell. Gall. 7, 67, 7 (controversiam); cfr. Bell. civ., [3,] 16, 3).
Mihi res est cum aliquo è una frase volgare (in Plauto). Tac., Dial., 10: tecum mihi, Materne, res est. Cesare: mihi est aliquid (amicitia, hospitium, res…) cum aliquo in Bell. Gall. 7, 39, 2 (His erat inter se de principatu contentio). Questa locuzione si trova 6 volte in Cesare, 5 volte in Nepote.
Quindi, esamina la casella dei composti di sum:
Cicerone ha sempre inesse in (sola eccezione De off. 1, 151). Invece Sallustio ha sempre inesse alicui (rei), frequente anche in Livio e Tacito, tranne Cat. 15, 5: in facie voltuque vecordia inerat, perché il dativo vultui non era usato, e così il dativo faciei.
Inesse col dativo è la regola in Sallustio; frequente in Livio.
I composti absum, desum, supersum hanno il dativo del possesso: Ces., Bell. Gall. 4, 26, 5: hoc unum… Caesari defuit.
E determina il differenziale che intercorre tra genitivo e dativo del possesso:
Il dativo con sum indica, in modo sia pur vago, il fatto del possesso (il dativo è la persona interessata). Ma il genitivo possessivo pone in rilievo il possessore, e il fatto del possesso è solo una idea subordinata. Quindi il genitivo è il possessore permanente, il dativo è il possessore temporaneo. Liv. 8, 4, 5: (Latini concedunt) Romam caput Latio esse (Romani concedunt… Romam caput Latii esse).
Il genitivo esprime il possessore, il dativo piuttosto la cosa posseduta.
Un sondaggio virgiliano gli consente di misurare la maggiore capacità d’oscillazione della lingua poetica:
Esse ed habeo: Virg., Ecl. 1, 80: sunt nobis mitia poma; Virg., Aen. 2, 584: habet haec victoria laudem; Virg., Aen. 11, 373-374: si qua tibi vis, si patrii quid Martis habes.
Mihi res est cum aliquo è una frase volgare (in Plauto). Tac., Dial. 10: tecum mihi, Materne, res est. Cesare: mihi est aliquid (amicitia, hospitium, res…) cum aliquo in Bell. Gall. 7, 39, 2 (His erat inter se de principatu contentio). Questa locuzione si trova 6 volte in Cesare, 5 volte in Nepote.
È possibile, a questo punto, affinare e confermare l’ipotesi di lavoro:
Esse col dativo possessivo è del linguaggio volgare e familiare. E’ una costruzione non ben ferma: ha qualcosa d’indeterminato. Res est si determina col dativo; con habeo la locuzione è più determinata e più breve.
La morte ha impedito a Ceci di condurre a compimento l’opera monumentale cui s’è dedicato fino agli ultimi giorni della vita. A noi sono rimasti gli arnesi del mestiere ed una quantità imponente di materiali più o meno sbozzati, più o meno finiti. Se questi suoi appunti per una sintassi latina fossero resi disponibili, sarebbe impossibile non tenerne conto, la prossima volta che qualcuno si ponesse a scrivere una grammatica. La nostra rappresentazione del latino, comunque, ne sarebbe mutata in modo sostanziale.
Soprattutto, Ceci ci ha additato una strada, ed avvertito che il cammino è malagevole: non si tratta, certo, d’una via da vestito di cappa. Però, ha disposto per noi, proprio dove inizia il percorso, gli strumenti necessari. Certo, sono un poco impolverati; e, magari, ci accorgeremo che non abbiamo forze sufficienti a reggere il peso di alcuni di essi; altri non vanno più bene ma, complessivamente, si tratta d’un lascito imponente. Sta a noi, adesso, raccoglierli ed incamminarci nella direzione che lui ha lasciato segnata sulle mappe che ha disegnato. Le coordinate generali sono chiare: dobbiamo risalire il corso del gran fiume che ha origine dall’Umanesimo e ritrovare, al di là della roccaforte, e delle secche, del ciceronianismo e del dogmatismo di sapore aristotelico, le sorgenti del latino vivo e forte, aperto, disponibile alla creatività ed alla comunicazione umana, ed imparare di nuovo a respirarne l’aria fresca e pulita, e camminare in spazi nuovamente aperti, liberando dalle stampelle del grammaticalismo, che ci impacciano solo e non ci sostengono veramente, noi stessi, e chi il latino studia con noi.
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Riproduco, senza sostanziali cambiamenti, il testo che ho esposto, in parte, nel convegno dedicato a Luigi Ceci ad ottanta anni dalla morte. La prospettiva è, volutamente, limitata all’insegnamento della lingua latina nei licei: una questione piccola, ma di qualche significato per la salute pubblica. Il registro, piano e quasi familiare, tiene conto degli ascoltatori di allora, ma è insieme tributo all’idea, ceciana, che ogni pensiero è dialogo, o non è affatto. I rinvii bibliografici non pretendono di essere esaustivi; sono, semplicemente, come le conchiglie che, raccolte passeggiando lungo la riva d’un mare (Cogitanti mihi et cum animo meo […] memoriam recensenti…: appunto), sia bello ed interessante condividere. L’articolo è stato pubblicato nel volume collettivo Per Ceci, Bologna 2008.
1 Anonimo Romano, Cronica, a cura di Giuseppe Porta, Milano 1981, p.104.
2 N. Festa, Commemorazione del socio Luigi Ceci, in «Rendiconti Reale Accademia dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche», serie VI, vol. III, fasc. 11-12 (1927), p. 642.
3 L. Ceci, Lezioni di linguistica generale, a cura di T. De Mauro e F. M. Dovetto, Roma 2005, p. 91.
4 Ceci, Lezioni…, p. 115; cfr. G. R. Cardona, La modalità orale: funzioni e codici, in I linguaggi del sapere, Roma-Bari (1990) pp. 208 e segg.; ib., Testo interiore, testo orale e testo scritto, pp. 333 e segg.; P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Bologna 1984, particolarmente alle pp. 197 e segg.: “Il desiderio della viva voce abita ogni poesia, in esilio nella scrittura. […] Ogni poesia aspira a farsi voce; a farsi, un giorno, sentire; a cogliere l’individuale incomunicabile, in un’identificazione del messaggio con la situazione che lo genera, in modo che possa giocare un ruolo stimolatore, come un appello all’azione”; M. Schneider, Il significato della voce, in Il significato della musica, Milano 1970; R. Barthes, Il piacere del testo, Torino 1975, pp. 65-66: “La scrittura ad alta voce non è fonologica ma fonetica […]; ciò ch’essa cerca (in una prospettiva di godimento), sono gli incidenti pulsionali, è il linguaggio tappezzato di pelle, un testo in cui si possa sentire la grana della gola, la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda: l’articolazione del corpo, della lingua, non quella del senso, del linguaggio”; John Lyons, Il linguaggio umano, in R. Hinde (cur.), La natura della comunicazione, Roma-Bari 1977, pp. 88-91; trovo molto utile Joseph Balogh, Voces Paginarum, in «Philologus», 82 (1926-1927), pp. 84-109 e 202-240; sul rapporto tra parola scritta e parola parlata, A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma-Bari 1988, pp. 115-119.
5 cfr. Ivan Illich, Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Milano 1994, pp. 51 segg. e 87 segg.
6 E’ circostanza assai nota che il testo latino sia concepito e scritto o, più spesso, dettato dall’autore – che, difatti, in latino tardo è, semplicemente, il dictator, originato da dictare, frequentativo di dicere (per un esempio, cfr. in Migne, Patrol. Lat., CXCVI 1195, il Tractatus de laudibus charitatis di Riccardo da San Vittore: Solus proinde de ea digne loquitur qui secundum cor dictat verba componit),da cui, in tedesco, le derivazioni dichten, “poetare”, e Gedicht, “poema”, e già in antico francese ditier e dictié: cfr. A Ernout, Dictare, dicter, allem dichten, in «Revue des études latines» 29 (1951), pp. 155-161; ancora in Dante, Vn XXV, 7: prosaici dittatori, e Pg XXIV, 59: Io veggio ben come le vostre penne /di retro al dittator sen vanno strette, oltre che, per il verbo, Pg VIV, 12; Pg XXIV, 54; Vn XX, 3 2; – ad un segretario tachigrafo, in vista non della lettura privata e silenziosa, ma ad alta voce e pubblica, non di rado per gli uffici di esecutori professionisti, e comunque fissato sulla pagina in scriptio continua. Il continuum sillabico riproduce il flusso vocale, non l’organizzazione logica e formale del gesto comunicativo: cfr. Tönnes Kleberg, Commercio librario ed editoria nel mondo antico, in G. Cavallo (cur.), Libri, editori e pubblico nel mondo antico, Roma-Bari 1975, pp. 48-49; A. Salvatore, Prosodia e metrica latina. Storia dei metri e della prosa metrica, Roma 1983, pp. 17-18; R. Barthes – A. Compagnon, Lettura, in Enciclopedia Einaudi VIII, Torino 1979, pp. 176-199. La medicina romana annovera la lettura tra gli esercizi fisici utili a conservare, come il gioco con la palla, la buona salute: dunque, assume che sia ad alta voce senza necessità di altra specificazione; tutti ricordiamo la meraviglia di Agostino la volta che gli accadde di osservare Ambrogio mentre leggeva in silenzio – Aug. Conf. VI iii, 2: Sed cum legebat, oculi ducebantur per paginas et cor intellectum rimabatur, vox autem et lingua quiescebant. -, oppure la stizza di Plinio Seniore, la volta che fu interrotto mentre ascoltava leggere – C. Plini Caecili Secundi Epistularum libri III, 5: Memini quendam ex amicis, cum lector quaedam perperam pronuntiasset, revocasse et repeti coegisse; hiuc avunculum meum dixisse:”Intellexeras nempe?” Cum ille adnuisset, “Cur ergo revocabas? Decem amplius versus hac tua interpellatione perdidimus -; la lectio tacita si diffuse, soprattutto nei monasteri, e per le necessità della vita comunitaria, a partire dalla fine del VI secolo: per quel che risulta a me, la prima menzione è in Regula Sancti Benedicti, cap. 48. Le testimonianze di letture e recitationes pubbliche sono frequenti fino al Medioevo tardo. Per un esempio cfr. la Cronica di Rolandino – F. Fiorese cur. Milano 2004 p. 570 -: Perlectus est hic liber et recitatus coram infra scriptis doctoribus et magistris presente eciam societate laudabili bazallariorum et scollarium liberalium arcium de Studio paduano.
7 Ceci, Lezioni…, p.66.
8 L. Ceci, Grammatica latina ad uso delle scuole, Parte I: Morfologia, Roma, presso Forzani e C. Tipografi del Senato, 1905, pp. III-XVI e 1-391.
9 In quarta di copertina della Morfologia, si legge che la Sintassi sarebbe uscita “nella primavera del 1905”.
10 Festa, Commemorazione…, p. 642.
11 I manoscritti di Luigi Ceci, il quale (diversamente da quanto càpita in qualche caso) ha scritto molto più di quanto abbia pubblicato, sono depositati in due fondi, presso il seminario vescovile ed il liceo-ginnasio Conti Gentili di Alatri, sua città natale; il primo comprende le carte del Latium vetus, poi pubblicato nel 1984 per le cure amorevoli di W. Belardi, della sintassi latina, della grammatica serbo-croata; il secondo contiene carte personali, appunti di lettura, abbozzi, materiali preparatori, schede e note di lavoro.
12 Una storia minima, ma molto accurata, di tale tradizione grammaticalista in L. Ceci, Lezioni…, pp. 32-35.
13 Ceci, Lezioni…, p. 66.
14 C. Giarratano, La storia della filologia classica, in Introduzione alla filologia classica, Milano s.i.d., pp. 7-17; U. von Wilamowitz-Moellendorf, Storia della filologia classica, Torino (1967), pp. 27-28.
15 Cfr. E. Garin, L’educazione in Europa 1400-1600, Roma-Bari 1976, che è lettura fondamentale per chiunque si occupi, a qualsiasi titolo, dell’insegnamento del latino e del greco.
16 Ai fini d’un primo orientamento riguardo lo stato della riflessione sull’insegnamento del latino nella scuola ci si può riferire a: E. Andreoni Fontecedro, Progetto sequenziale per l’insegnamento della morfologia e della sintassi latina nel biennio secondo il modello Tesnière – Sabatini, in «Aufidus», 5 (1988), pp. 83-99; E. Andreoni Fontecedro, Indagine sull’insegnamento delle letterature greca e latina nella scuola secondaria superiore,in «Aufidus», 9 (1989), pp. 181-194;E. Andreoni Fontecedro, Il modello Tesnière – Sabatini e la sua applicazione al latino, in «Atene e Roma», 31 (1997), pp. 81-88; G. Calboli, La linguistica moderna e il latino. I casi, Bologna 1975; G. Garbugino, Analisi logica, linguistica moderna e didattica del latino, in «Bollettino di studi latini», 25 (1995), pp. 585-603; G. Garbugino, Latino ed educazione linguistica, Padova 1995; A. Ghiselli, Grammatica moderna della lingua latina, Bari 1987; A. Ghiselli, Nuove metodologie didattiche per l’apprendimento delle strutture morfosintattiche fondamentali del latino, in I. Lana (cur.), Il latino nella scuola secondaria, Brescia 1990, pp. 55-74; A. Ghiselli, Il nuovo libro di latino, Bari, 1995; H. Happ, Grundfragen einer Dipendenz-Grammatik des Lateinischen, Göttingen 1976; H. Happ, Möglichkeiten einer Dependenz-Grammatik des Lateinischen, in «Gymnasium», 83 (1976), pp. 35-58; H. Happ, Möglichkeiten und Grenzen bei der unterrichtlichen Anwendung einer Dependenz-Grammatik des Lateinischen, in «Gymnasium», 84 (1977), pp. 35-87; H. Happ, Syntaxe latine et théorie de la valence. Essai d’adaptation au latin des théories de Lucien Tesnière, in «Les Études Classiques», 45 (1977), pp. 337-366; R. Oniga, I composti nominali latini. Una morfologia generativa, Bologna 1988; R. Oniga, Grammatica generativa e insegnamento del latino, in «Aufidus», 14 (1991), pp. 83-108; G. Proverbio, Lingue classiche alla prova. Note storiche e teoriche per una didattica, Bologna 1981; G. Proverbio, Lezioni di glottodidattica, Torino 1984.
Mi pare tuttavia evidente che l’immagine del latino in base alla quale sono costruiti molti di questi contributi sia proprio quella della tradizione grammaticalista, e che molti di essi non riescano a sottrarsi agli eccessi del logicismo che tanti danni ha prodotto, e per il quale, ormai, l’insegnamento del latino nelle nostre scuole si sta riducendo allo sforzo dell’apprendimento degli schemi grammaticali: che si tratti di schemi grammaticali soltanto diversi, non rileva granché. Importa, viceversa, che l’insegnamento sia fondato, e non se ne discosti mai, su una robusta ed appassionata pratica di lettura di testi accortamente trascelti dall’insegnante, anche uscendo dal canone classico: diversamente, ci si ritrova impantanati nelle secche del formalismo sterile e delle colate di chiacchiere introdotti dal modello di Port-Royal. La pedagogia degli Umanisti ha sempre insistito sulla necessità di mettere i testi latini in mano agli studenti prima possibile, ed è un truismo banalissimo che la sensibilità linguistica si affini in modo direttamente proporzionale alla quantità della esposizione. Da quando il latino non è più linguaggio veicolare del culto, se accadesse che, dopo aver studiato qualche centinaio di pagine di grammatica ed aver letto poche decine di pagine di latino, qualcuno il latino cominciasse un poco a capirlo per davvero, potremmo con animo sereno gridare al miracolo.
Del tutto diverso da qualsiasi approccio normativo il metodo d’insegnamento proposto da Hans H. Øberg, Lingua Latina secundum naturae rationem explicata, Hauniae 1959, rivisto ed ampliato nel successivo Lingua Latina per se illustrata, Hauniae 1990. Ceci sarebbe stato, a riguardo, molto perplesso. Avrebbe osservato che “il metodo Berlitz” non può essere applicato al latino (cfr. Lezioni…, p. 109; identico punto di vista in A. Gramsci, Per la storia degli intellettuali, in Quaderni dal carcere, III, Torino 1977, pag. 1545; e queste pagine di Gramsci rimangono fondamentali). La proposta di Øberg andrebbe tarata meglio rispetto all’obiettivo essenziale dello studio del latino nel liceo e nell’università: la comprensione dei testi letterari. Diversamente, rischia di disperdere molte energie. È un vero peccato che sia come evaporato dalla memoria collettiva V. Fontoynont, Commento al vocabolario greco, Roma 1949, del quale non esiste tuttavia un corrispondente manuale latino: e invece, bisognerebbe lavorarci molto sul serio.
17 Nella nostra scuola, ai tempi di Ceci, si adoperava l’ovviamente “gloriosa” sintassi del prof. Giovanni Zenoni, che aveva almeno il vantaggio, in un unico volumetto di 566 pagine, di offrire “trecentosettantaquattro temi – centotrenta versioni continuate dall’italiano e dal latino – indice dei costrutti più notevoli – vocabolario dal latino e dall’italiano”: nientemeno; in terza di copertina della copia che ho tra le mani, uno studente di special diligenza ha annotato in bella grafia: ”Ablativo assoluto significa: caso ablativo sciolto (solutus) da ogni nesso logico e grammaticale nei riguardi della proposizione principale. Exempli gratia: Morto Muma Pompilio, i Romani piansero amaramente: Mortuo N. Pompilio, Romani fleverunt amare”.
18 Nell’esito italiano dei toponimi latini è evidente questa costante che non mi pare sia stata rilevata altrove: i luoghi in cui soprattutto si andava, e dei quali era prevalente l’uso all’”accusativo” della direzione, realizzano terminazioni in -a/-o oltre che, per Carthago, in -e; i luoghi in cui soprattutto si stava, e dei quali era prevalente l’uso al locativo, realizzano terminazioni in -e/-i.
19 Per l’intera questione, cfr. A. Traina – G. Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, Bologna 1982, pp. 97-98 e, per l’ipotesi così detta “suppletivistica, 161-165.
20 Ceci, Lezioni…, p. 41.
21 Ceci, Lezioni…, p. 90.
22 Ceci, Lezioni…, pp. 105-106; mi par chiaro il riferimento al Ciceronianus di Erasmo.
23 Ceci, Grammatica latina…, p. XII. Una disamina attenta della varia polemica agitata, per lunghi secoli, contro il grammaticalismo non sarebbe priva di interesse: è bella e tristissima l’immagine, in Comenio, dei ragazzi che si fanno vecchi spendendo senza frutto la giovinezza nello studio del latino: Consenescebant plerique, qui se dediderant litteris, circa vocabula: soli latinae linguae decem et plures anni tribuebantur; immo tota etas, tardissimo, eoque exili, et operae pretio non refundente profectu. Questi id sunt jam pridem Vives, Erasmus, Sturmius: querellae, non remedia (Janua linguarum reserata, Lesnae 1631); tutti abbiamo in mente il grido di dolore levato dalla relazione pascoliana del 1893; Guido Calogero ha scritto con amara ironia:”Di un simile classicismo si sono visti i successi. L’Italia ha perso la guerra, e gli Italiani non sanno il latino”. Concetto Marchesi ha instancabilmente ricordato che lo studio della grammatica deve condurre alla letteratura, e che lo studio di una lingua “morta” deve consentire l’accesso ad un mondo di vita non spenta, e perciò ad una cultura “critica, disinteressata, umana”, che sappia opporsi ad ogni modernismo falso, cristallizzante, retrogrado (cfr. C. Marchesi, Il latino nella scuola, in «Riforma della scuola», 11 (1956) pp. 345-348); impressiona un poco la consonanza tra le posizioni di Ceci e quelle di Gramsci: cfr. Gramsci, Rinascimento, in Quaderni…, I, Torino 1975, pp. 640-653, oltre a Gramsci, Note per una introduzione allo studio della grammatica, in Quaderni…, III, Torino 1975, pp. 2341-2351: “Posto che la grammatica normativa è un atto politico, e che solo partendo da questo punto di vista si può giustificare “scientificamente” la sua esistenza, e l’enorme lavoro di pazienza che il suo apprendimento richiede (quanto lavoro occorre fare per ottenere che da centinaia di migliaia di reclute della più disparata origine e preparazione mentale risulti un esercito omogeneo e capace di muoversi e operare disciplinatamente e simultaneamente: quante “lezioni pratiche e teoriche”, regolamenti, ecc.) è da porre il suo rapporto con la grammatica storica”. (p. 2347).
24 Fuori della scuola italiana, ove vengano meno le ragioni del profitto e dell’interesse, gli strumenti sono molto diversi. Senza andare troppo lontano, fino a qualche anno fa chi frequentasse il Pontificio Istituto Biblico poteva concedersi la delizia d’intelletto di assistere alle lezioni di padre Carolus Egger, che il latino lo conosceva bene ed in latino amava insegnare. Pur nell’ambito della tradizione grammaticale classica, di padre Egger abbiamo un prezioso, essenziale, accuratissimo manualetto di latino (Latine Discere Iuvat, Officina Libraria Vaticana, Romae 1982), che è scritto, naturalmente, in latino, e sulle pagine del quale, esemplari per efficacia ed economia, gli insegnanti dovrebbero, a parer mio, un poco meditare.
25 F. Piazzi (cur.), La didattica breve del latino, Bologna 1993; per la didattica breve, F. Ciampolini, La didattica breve, Bologna 1993.
26 Ceci, Grammatica…, pp. VII-VIII.
27 Ceci, Grammatica…, pag . X.
28 Ceci, Lezioni…, p. 86; enfasi mia.
29 Ceci, Lezioni…, pp. 53-54.
30 Ceci, Lezioni…, p. 93.
31 Ceci, Grammatica…, pag . XII.
32Tra le carte manoscritte depositate presso il liceo di Alatri c’è una cartella di appunti per “correzioni ed aggiunte alla morfologia.
33 Cfr., ad esempio, Traina – Bernardi Perini, Propedeutica…, p. 128: “Il suppletivismo uis roboris, così diffuso nella nostra tradizione scolastica (ma solo in quella italiana), si deve, pare, a Luigi Ceci (Grammatica latina, Roma 1905). Fu infelice innovazione: uis e robur indicano due concetti che si toccano ma non si ricoprono”. Ceci aveva, invece, scritto, molto meglio, pensando a studenti che si preparavano anche alla composizione latina, ed avendo in mente un latino aperto, vivo e disponibile alla libertà della umana comunicazione, non affatto congelato in forme marmoree e immutabili:”vīs f., forza. È difettivo nei casi del singolare e forma il plurale come se fosse da un tema in –s: nom. vis, acc. vīm, abl. vī; plur. vīres, virium, viribus. Il gen. sing. vis non si trova prima del terzo secolo d.C. (Digesto: vis privatae crimen). Userai roboris robori per il gen. dat. sing. mancante di vis. Nota – Da vis si fece il plurale vires sull’analogia di glis: glires; mos: mores. L’antico nom. plur. vis si ha in Lucrezio (3, 265): sed quasi multae vis unius corporis exstant”. (Ceci, Grammatica…, p. 81; si avverta tuttavia che questo vis è stato anche, e successivamente, considerato “plurale singolativo”). È curioso che il volume di Traina e Bernardi Perini elenchi, tra le grammatiche scolastiche specialmente raccomandabili, il manuale di Tantucci, che è la più estrema e la più compatta sistemazione della tradizione grammaticalista normativa, ma non il libro di Ceci che, secondo me, gli autori avevano guardato in modo assai frettoloso.
34 Cfr. Festa, Commemorazione…, p. 642: ”Ma il volume non ebbe la fortuna che meritava. Dicono sia sembrato troppo grosso per i ragazzi del ginnasio. La verità è un’altra, e non è questo il momento di dirla”.
35 Ceci, Grammatica…, p. III.
36 Ceci, Grammatica…, p. 43.
37 Ceci, Grammatica…, p. V.
38 Ceci, Grammatica… p. 21.
39 Ceci, Grammatica…, p. 16.
40 Ceci, Grammatica…, p. 42.
41 Ceci, Grammatica…, pp. 66-67.
42 Ceci, Grammatica…, pp. XI-XII.
43 M. M. Boiardo, Orlando Innamorato, II 10, 27.
44 Ceci, Grammatica…, p. III.
45 Ceci, Lezioni…, p. 37.
46 Cfr. G. B. Conte, Mutamento di funzioni e conservazione del genere, in Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino 1974, pp. 77 segg.; M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano 1976, pp. 92-95.
47 Ceci, Lezioni…, p. 102.
48 Ceci, Lezioni…, p. 97.
49 Assai vicino a Ceci, V. Fontoyont, Commento al vocabolario greco, Città di Castello 1949, che non deve mancare tra le letture dei docenti di lingue classiche.
50 Non sarebbe male fermarsi un poco a riflettere su tutta questa questione dal punto di vista della ratio atque institutio studiorum societatis Jesu, della quale abbiamo ora la comodissima ed in tutto eccellente edizione di Angelo Bianchi (Milano, 2002). All’insegnante è affidato il compito di precludere l’accesso ai libri “sconvenienti” (cfr., per un esempio, p. 324: A quibus libris abstinendum. A libris perniciosis et inutilibus legendis prorsus abstineant). La maniera più efficiente per garantire il risultato voluto è procurare una immagine della lingua rigidamente normativa e limitata tanto, da rendere il più possibile difficile e tormentata la lettura. Considerazioni fondamentali riguardo il testo letterario come oggetto d’insegnamento da tutt’altro punto di vista in R. Ceserani, Raccontare la letteratura, Torino 1990; fondamentale C. Castoriadis, Fenêtre sur le chaos, Paris 2007 C. Castoriadis, Fenêtre sur le chaos, Paris 2007; ovvio il rinvio a H. Bloom, Come si legge un libro e perché, Milano 2001 e H. Bloom, Il canone occidentale, Milano 2005 R. Barthes, Le plaisir du texte, Paris 1973; R. Barthes, Le degré zéro de l’écriture, Paris 1972; R. Barthes, Critique et verité, Paris 1966.
51 Della questione si è occupato con bella delicatezza, W. Belardi, Latium Vetus, Alatri 1987, p. 43.
52 Ceci, Lezioni…, p. 47.
53 La questione della autonomia della sintassi rispetto alla morfologia è tuttavia aperta: cfr. J. Ries, Was ist Syntax?, Praga 1927; N. Drǎganu, Storia della sintassi generale, Bologna 1970, e, particolarmente, S. Stati, Teoria e metodo nella sintassi, Bologna 1972, part. pp. 31 segg.
54 Ceci, Lezioni…, p. 79; cfr. L. Spitzer, Critica stilistica e semantica storica, Roma-Bari 1966, p. 37 particolarmente, dove è enunciato il noto aforisma nihil est in sintaxi quod prius non fuerit in stylo.
55 Ceci, Lezioni…, pp. 97-98.
56 Obbligatorio, per noi, il rinvio a J. Schrijnen, Charakteristik des Altchristlichen Latein, Niemegen 1932; L. R. Palmer, La lingua latina, Torino 1977, pp. 224-253.
57 Per una riconsiderazione dell’impiego di strumenti d’analisi frequenziale nell’analisi del testo, cfr. H.D. Laswell – N. Leites, Language of Politics. Studies in Quantitative Semantics, Cambridge (Mass.) 1965.
58 All’interno del manoscritto, ci sono i fogli d’una esercitazione seminariale che elenca ed analizza tutte le occorrenze del dativo di possesso in Sallustio.